Qui, tutte le specie di chiocciole vengono utilizzate e mirabilmente valorizzate dalla cucina locale, a partire dalle cosiddette cozze piccinne o cuzzeddhe (Euparipha pisana = Teba pisana) che sono le più piccole fra le chiocciole eduli salentine.
I locali distinguono anche una seconda specie, organoletticamente meno apprezzata, localmente nota con l’appellativo di cozza masculina, furcinara, etc. , distinguibile dalla prima per piccolissime differenze anatomiche fra cui l’ombellico più pronunciato ed introflesso, distinzione che peraltro sfugge a molti zoologi che a quanto pare riconoscono un’unica specie. Queste vengono raccolte e consumate esclusivamente in estate.
Altra chiocciola localmente apprezzata è la cosiddetta cozza grossa, cozza pinta o cuzzune alias Helix (Eobania) vermiculata, chiocciola che presenta una colorazione variabile della conchiglia, nota con il nome di rigatella in varie parti d’Italia. Queste vengono raccolte e consumate tanto quando sono nello stadio di corritrici, tanto quando sono in letargo, fase che coincide con l’estate. Anche qui gli esperti pignoleggiano, riconoscendo a vista e preferendo quelle provenienti dalle fertili pianure alluvionali del Brindisino in quanto leggermente più grandi, ma soprattutto più piene e polpose di quelle raccolte in terreni più poveri.
Seguono i marruchi o ciammarruchi (Elix adpersa) che sarebbero le classiche escargot, orgoglio e vanto della cucina francese, ma che, ironia della sorte, in terra salentina, risultano fra tutte, le meno apprezzate, perché, a detta degli indigeni, “sàpenu te rièstu” .
Le chiocciole per eccellenza qui sono infatti le munaceddhe o moniceddhe (Elix aperta), che devono il nome alla tinta della conchiglia, color saio di monaco. Possono essere consumate allo stadio di corritrici, ma divengono una pregiata leccornia solo quando sono in letargo e si presentano saldamente richiuse da un candido opercolo bianco, tanto che i locali, non esitano a gustarne qualcuna persino cruda. Anche le munaceddhe non sono però tutte uguali: i gourmet locali ne fanno un’ampia classificazione con relativa valutazione merceologica in base a vari parametri e alla provenienza.
La prima distinzione avviene fra le chiocciole vissute e raccolte in natura e le chiocciole allevate; inutile dire che prime sono molto migliori, ma come fare a riconoscerle? Le chiocciole per così dire selvatiche, ovvero quelle cavate ad una ad una dal terreno con l’apposita zappa da esperti cercatori, che curvi come uncini sfidano la canicola estiva, si riconoscono a colpo d’occhio perché hanno la conchiglia pulita, ossia priva di incrostazioni terrose, l’opercolo candido, notevolmente convesso e saldamente aderente al nicchio.
Le chiocciole d’allevamento, salvo rari casi, presentano il nicchio incrostato di terra ed hanno l’opercolo meno spesso e meno convesso, quando non completamente appiattito riprova di una minore percentuale di parte edibile.
Altra distinzione è quella che viene fatta fra le munaceddhe locali e quelle d’importazione. Iinutile dire che qui le differenti valutazioni sono molto soggettive, spesso influenzate da interessi personali o da campanilismo. Le chiocciole d’importazione sono pressochè esclusivamente selvatiche ed in genere sono di buona qualità e, specialmente quelle di provenienza tunisina, hanno davvero poco da invidiare alle omologhe locali.
Sensibilmente inferiori quelle di provenienza algerina caratterizzate da una colorazione più scura delle carni che, sovente, possono avere un sapore lievemente amarognolo.
Comunque, qualunque delle specie su menzionate, dalla più pregiata alla più negletta, se ammannita in una delle ricette specifiche tradizionali risulterà estremamente gustosa. Provare per credere!
che profumi!