Il Mangialibri/ Primi incontri

 di Michele Stursi

Maria mangia il suo gelato con tanto amore, stando attenta a non sporcarsi il vestitino. È una bambina molto bella, la sua pelle è candida; stringe forte al petto la bambola di pezza, mi guarda e sorride continuamente. Il suo sguardo dolce e tenero scruta i miei occhi in cerca di un conforto, di una presenza al suo fianco che forse non ha mai avuto e ora ha paura di perdere da un momento all’altro.

Io la guardo e ne rimango estasiato, colpito dai semplici gesti da bambina: ogni tanto, in maniera molto istintiva, si sfiora i riccioli con le dita e li porta dietro le orecchie; rigira di continuo il cono tra la mano, catturando con la sua piccola lingua le gocce di gelato che si sciolgono al calore del sole.

Prima di ritornare a casa però, mi volto a guardare nuovamente la casa baronale. Qualcosa attira la mia attenzione, come un suono, un lamento, un canto. Non saprei. Devo darci un’occhiata.

«Maria ora ti aiuto ad attraversare la strada e poi vai a casa da sola. Te la senti?».

La piccola mi guarda perplessa e poi fa cenno di sì con la testa. La vedo correre felice verso gli altri bambini con il suo gelato in mano, alzato al cielo come un trofeo.

M’incammino verso la vecchia costruzione abbandonata e di fronte al portone mi fermo a contemplare l’ammasso informe di rovine. Mi chiedo se quello che sto per fare abbia qualche particolare significato o sia solo pura curiosità. Da bambino ci passavo diverse volte durante la giornata accanto a questo palazzo ma non ricordo mai di avere avuto voglia di vedere cosa si nascondesse dentro, celato agli occhi di tutti. Una strana sensazione, come un richiamo di sirena sperduto nell’oceano, gabbiano nell’immensità della notte, cucciolo svezzato o amore infranto, mi vuole dentro.

Il mio cuore pulsa veloce. Come rotaie di una vecchia locomotiva sento scanditi sulle tempie i suoi battiti. “Ora come ora niente e nessuno può fermarmi”, mi ripeto più volte per farmi coraggio.

E mentre sto come un fesso a cucire a freddo le ferite che attimo dopo attimo si aprono sul corpo indolenzito della mia coscienza, sotto i fendenti della sciabola della paura, una voce dietro di me mi fa sobbalzare: «Ha un ché di misterioso, vero?».

Mi volto di scatto e mi tiro indietro estasiato dalla bellezza di una giovane ragazza che mi fissa con un sorriso cattura-uomini. Arrossisco, ne sono certo, e contraendo i muscoli addominali, riesco a spingere fuori un soffio d’aria e articolare un “sì” smorzato. La ragazza ride: «Non avrà mica intenzione di entrarci?».

Non so se dirle la verità oppure mentire spudoratamente.

«Ma lei non è di queste parti?».

Ci risiamo. Non mi va per niente di ripetere le solite cose: “No, sono di Noha, ma ho sempre abitato a Pisa e mia sorella è la dottoressa… ” e bla bla bla.

Ops, devo aver contratto i muscoli facciali in una brutta smorfia di seccatura, poiché la ragazza si scusa di essere stata troppo invadente e se ne va salutandomi gentilmente.

«Non si preoccupi, scusi se l’ho disturbata. Buona giornata».

Rimango irrigidito, inerte, a guardarla attraversare la strada, dirigersi verso la piazza e sparire poi inghiottita dalle mura di una vecchia casa. Non mi ha dato neanche il tempo di respirare oppure io non sono in grado di respirare secondo i suoi tempi?

Sono troppo frastornato, rinuncio al mio intento di perlustrare l’edificio e mi ritiro in meditazione. Ritorno da mia sorella, mi risiedo sulla solita poltrona e sento un bisogno intenso, profondo, di riflettere. In così poco tempo troppe cose mi sono passate davanti senza che io potessi scandirle per bene, passarle più volte sotto la mia lente di critico e analizzarle in tutti i loro infinitesimi particolari.

Niente, tutto troppo veloce e incontrollabile. Con i miei libri questo non sarebbe mai successo. Non sarebbe potuto succedere. Anche se qualcuno fosse stato così interessante, attraente e affascinante da prendermi anima e corpo e legarmi alla sedia l’intera notte, io mi sarei lasciato possedere tranquillamente, incurante dell’alba che si sarebbe accostata, seducente e perfida allo stesso tempo. Il giorno dopo lui sarebbe stato ancora lì, sul comodino o in qualche scaffale nella libreria. Avrebbe aspettato solo me: si sarebbe lasciato di nuovo sfogliare, accarezzare dalle mie gelide mani e torturare dalle mie manie.

Con i miei libri era diverso. Loro mi amavano, qualunque fosse stato il giudizio che io avessi dato al loro autore. E io amavo loro, il loro profumo. Trascorrevo ore e ore con loro, a volte rimanevo a guardarli, seduto in mezzo alla mia immensa biblioteca, contemplavo la loro bellezza eterna, inviolabile e irraggiungibile da ogni povero mortale. Non mi avrebbero mai tradito, non si sarebbero mai allontanati da me.

E forse per questo amo leggere, poiché trovo in quel semplice gesto dell’anima e della mente una sicurezza interiore che nessuna cosa al mondo è in grado di regalarmi. Ecco, infatti, che gli eventi della vita mi passano sopra senza che io possa arrestarli, non per farli miei, ma semplicemente e unicamente per capirli. Cosa mi rimane di quella bambina, di quella anziana del bar e di quella incantevole ragazza che ho incontrato poco fa? Nulla. Ho bisogno di fermare tutto su un foglio di carta, prima che si perda nel vuoto della mia memoria.

Prendo il mio taccuino, il mio lapis e traccio i volti di quelle tre figure che hanno incrociato casualmente la mia vita. Tre donne, tre età differenti, tre volti bellissimi.

Finito. Tiro un sospiro di sollievo, dispongo i tre foglietti uno accanto all’altro sul tavolino al centro della sala e cerco di analizzarli. Avvicino la poltrona al tavolino, mi metto seduto e con i gomiti sulle ginocchia sorreggo la testa gonfiata dai mille pensieri che aleggiano come un leggero pulviscolo nella luce. Niente, non ci vedo niente di particolare, niente di più di quello che ho visto poco fa. Eppure sento ancora quel richiamo che mi aveva spinto dinanzi al palazzo baronale, lo sento ancora strisciare come un verme sui miei timpani.

Mi alzo e incomincio a fare su e giù per la stanza con le mani incrociate dietro la schiena. C’è qualcosa di strano che la mia vecchia mente malandata riesce a captare ma che non riesco a mettere a fuoco. Sì, ci sono, come ho fatto a non pensarci subito: la visione di quelle immagini, una accanto all’altra, mi rivela molto di più di quello che inizialmente avevo interpretato come la prova evidente del fluire del tempo. Hanno qualcosa in comune, qualcosa di strano sul loro volto, è come se fossero state marcate, segnate con inchiostro visibile solo ai miei occhi e mandate sulla mia strada.

«Allora Pasquale, ti sei annoiato?». Il flusso dei miei pensieri si arresta brutalmente, impaurito dalla voce di Chiara, che ora esce dal suo studio per accompagnare una paziente alla porta.

tratto da Il Mangialibri di Michele Stursi, L’Osservatore Nohano, 2010

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