3/I’m singing in the rain
di Michele Stursi
La strada che si presenta nel mio campo visivo è una viuzza costellata di antichi palazzi interamente rivestiti di “fogli” di pietra leccese; una delle strade più vecchie del mio paese.
Abitavo in un palazzo molto antico appartenente al mio trisavolo. Ricordo due grosse colonne in pietra leccese, lisce come la superficie del mare d’estate, quando il sole arrossisce sulla linea dell’orizzonte e l’afa lascia il posto alla frescura del vespro. Immettevano l’ospite in un ampio cortile scoperto, dove papà parcheggiava lu sciarabbà[1] caricato di tutti gli attrezzi del suo lavoro: la pala, la sarchiuddhra[2], la ‘mbruffarola[3], lu palieddhru[4], la ‘nzurfarola[5].
Poi, attraverso un portone, si entrava in una sorta d’ingresso e una scalinata, anch’essa in pietra leccese, portava al piano di sopra, dove vi erano due enormi stanze con volta a stella. Queste facevano da cucina, sala da pranzo, salotto, soggiorno e stanza da letto matrimoniale, dove vi erano anche due lettini, uno per me e l’altro per mia sorella. Il bagno era in giardino, nella stalla: in un angolino dietro la porta, di fronte al nostro vecchio cavallo Neru, papà aveva sistemato una tazza. Non avevamo lo sciacquone e quindi per ripulire usavamo dei secchi d’acqua piovana. Ricordo che non avevamo neanche la carta igienica e quindi si utilizzavano o i fogli di carta, gli stessi usati dal fornaio per incartare il pane fresco, oppure uno strofinaccio, già adoperato ovviamente, ma che mamma disinfettava in acqua bollente ogni due giorni.
Cammino sotto la pioggia che ora ha preso un ritmo incessante e mi guardo intorno nella speranza di riconoscere casa mia. Niente, sono quasi arrivato alla fine della strada e ormai sono sfinito, il peso dell’acqua mi sta sfiancando. Mi siedo su degli scalini e sto per tirare di nuovo fuori il taccuino per finire il mio disegno, quando alzo lo sguardo e vedo le due colonne e il cortile e il portone in legno scuro. Mi sollevo di scatto, uno strappo alla schiena mi piega in due. Già, non ho più trent’anni! Con una mano sul fianco destro avanzo zoppicando fino al portone. Sto per bussare, quando mi accorgo che sul lato destro c’è un citofono con una targhetta in ottone. Mi avvicino per leggere cosa c’è scritto ma la pioggia non me lo permette. Mi asciugo il volto con un fazzoletto che ho in tasca e metto la mano sugli occhi per proteggerli dalle enormi gocce d’acqua.
Dottoressa Chiara Mitri, psicologa.
Questo nome mi ricorda qualcuno, il cognome poi è… è il mio!
Suono al citofono e mi risponde una vocina molto delicata.
«Chi è?».
E ora? Cosa le rispondo, “tuo fratello”? Le verrà un infarto.
«Signorina, c’è Pasquale?».
Ma che mi è passato per la mente? Pasquale sono io!
Dall’altra parte silenzio; poi si sente: «No, ha sbagliato indirizzo».
Che fortuna! Non ci ha fatto caso.
Che fortuna? Non si ricorda più di me! Non ricorda più di avere un fratello! Non ho sbagliato indirizzo, questa è casa mia, tu sei mia sorella. Risuono, senza pensarci due volte.
«Chi è?» – ora non è più una vocina tenera e delicata di donna a rispondermi, ma sembra quella di un uomo sulla quarantina, alto, robusto e incazzato.
«Mi scusi, avevo citofonato due secondi fa».
«Mia moglie le ha detto già che qui non abita nessun Pasquale. Allora, cosa cerca ora?».
“Mia moglie?” Chiara si è sposata senza dirmi niente?
«Nulla, mi scusi ancora».
Mi sento male. Mia sorella ha messo su famiglia e io non ne so nulla. Magari ho anche dei nipotini e loro ignorano l’esistenza dello zio Pasquale.
Ho i capogiri, la schiena continua a farmi male e, come se non bastasse, sono inzuppato come una spugna. Devo trovare al più presto una soluzione; sì, devo cercare un hotel, un bed & breakfast, insomma un luogo asciutto dove dormire questa notte. Domani è un altro giorno e se non mi ammalo vedrò di riprovare a contattare Chiara.
In effetti, non me la sento ora come ora di citofonare nuovamente e presentarmi come il “fratello mai esistito”. Sono un vigliacco, lo so, ma sarebbe un colpo molto pesante, sia per me che per lei. Quindi, meglio evitare.
Ma dove trovare un hotel a Noha? Impossibile. Devo spostarmi, magari chiamare un taxi, farmi portare al più vicino albergo. Prendo il cellulare dal taschino della giacca e faccio una chiamata. Oggi non è giornata, niente va per il verso giusto, questo bastardo di telefonino si è spento: batteria esaurita. Che mi è venuto in mente, non potevo starmene buono e continuare a fare quello che avevo sempre fatto a Pisa?
Inizio a vagare senza una meta per il paese, prendo con me la valigia, anche questa completamente bagnata, e mi metto a saltellare come un perfetto rimbecillito per le stradine di Noha, fischiettando “Singing in the rain”. Da dove mi venga tutta questa voglia di canticchiare, non ne ho proprio idea. Mi verrebbe anche di arrampicarmi sul lampione del sagrato della chiesa, di fare su e giù dal marciapiede, calpestare le pozzanghere, farmi inondare dall’acqua che sgorga da una grondaia e giocare con gli schizzi d’acqua come Gene Kelly. Forse però non sono così happy.
Lasciamo stare, meglio stare fermi e buoni, perché se per caso mi vedesse qualcuno sarebbe la fine del mio sereno e tranquillo soggiorno a Noha. L’indomani sarei sulla bocca di tutti come Pasquale ‘u pacciu’[6], ritornato nel suo paese dopo ben trent’anni per sfuggire alle grinfie del reparto di neuropsichiatria dell’ospedale Santa Chiara di Pisa.
Anche se poi a me importa poco. Mi è sempre fregato poco delle dicerie della gente. Purtroppo, vivendo in un paesino così piccolo, diventa anche piccolo il tuo diritto alla privacy, a fare i comodi tuoi in casa tua senza dover dare conto a nessuno, senza che poi lo venga a sapere inevitabilmente il tuo vicino. Forse questa è stata una delle cause per cui ho deciso di abbandonare Noha. Per dirla tutta, questo piccolo paesino non è stato mai a misura mia. Non per vantarmi, ovviamente, però non eravamo compatibili; un rigetto che non riuscivo a spiegarmi. Sia chiaro, non disgustavo il paese in sé per sé, ma la mentalità ferma e antiquata dei suoi abitanti.
Ad esempio io avevo degli… o Dio mio… ho ancora paura a pronunciare questa parola. Ricordo ancora, con forte dolore sulla guancia destra, la sberla che ricevetti da papà quando, per giustificare il mio ritardo, gli dissi che stavo coltivando il mio hobby. A quella parola mio padre arrossì come un pomodoro, allungò il suo enorme braccio e mi diede un ceffone così forte che sul mio viso rimasero stampati i calli della sua mano. Per una settimana. Ricordo ancora il suo alito forte e atterrante quando mi urlò in faccia: «Camina coji tabaccu, addrhu ca obbi[7]».
Ora, a ripensarci, mi viene da ridere, ma se mi fermo a riflettere sul dolore che provai quel pomeriggio, sarei capace di rimettermi a piangere. Un dolore che proveniva da dentro, dai meandri della mia curiosità di ragazzo quindicenne zittita dall’operosità maniacale di chi mi circondava. A Noha non c’era tempo per pensare, fantasticare, meravigliarsi; bisognava prima di tutto lavorare per buscarsi il pane.
Allora mi convincevo sempre più che io non ero un nohano; il caso mi aveva fatto nascere in quel posto e forse si era sbagliato. Un errore che ora pagavo sulla mia pelle. Avete presente Sera sul viale Karl Johan di Edvard Munch? – quello dell’Urlo, per intenderci – beh, ho sempre pensato che quel quadro fosse un sunto raggelante della mia gioventù nohana. Vagavo per la mia strada, come un’ombra contro corrente.
Mi spiego meglio. All’insaputa di tutti – temevo di essere il solo – avevo delle passioni, degli hobby. Ad esempio mi piaceva ascoltare la musica, la vera musica, quella classica. Ero fuori moda, mi dicevano i miei compagni. A quei tempi si ascoltava Celentano, con la sua “Ba… ba… baciami piccina”, “Maramao perché sei morto” del Trio Lescano, “Pippo non lo sa” interpretata da Silvana Fioresi e poi da Rita Pavone, Claudio Villa eccetera eccetera. Anche se poi tra queste c’era qualcuna che piaceva anche a me, come “La Paloma Blanca” di Cherubini e Falcomatà, solo perché impostata tutta su giochi di parole puerili e su allusioni (Quella paloma blanca, tanto cruele…/ tanto cruele/ lasciò le mute Ande, le mute Ande, sotto la nieve …).
Nonostante fosse impossibile ascoltare altri generi di musica, io ci riuscivo. Wolfgang Amadeus Mozart, Ludwing van Beethoven erano i miei preferiti. La gioia che metteva, e che tuttora mette in me il “Rondò alla Turca”, è indescrivibile: quell’accavallarsi maestoso di note, quell’inseguirsi giocoso di accordi nel mio orecchio di ragazzino innocente, mi faceva sorridere, mi metteva allegria. Ogni volta che andavamo in campagna dallo zio Alfredo non salutavo nemmeno; correvo in salotto, prendevo il 33 giri in vinile, lo sfilavo con delicatezza dalla custodia e, tremando per l’emozione, lo poggiavo sul piatto, abbassavo il braccio e lasciavo che la musica prendesse il sopravvento su di me. Entravo in estasi. Altro che fumare o tracannare birra fino a sentirsi male, come facevano di nascosto i miei coetanei. Questo era vero sballo.
Una musica che irrompeva con prepotenza nel mio corpo, in tutto il mio corpo. Sentivo vibrare di gioia la tromba di Eustachio, i neuroni del sistema limbico stiracchiavano i loro dendriti, i globuli rossi danzavano nel circolo sanguigno, ogni singola cellula di ogni mio tessuto, di qualunque organo facesse parte, insomma, l’intero organismo era scosso da quella melodia. I fiori nella stanza si schiudevano, i girasoli nei campi ruotavano il loro capolino verso la finestra da dove proveniva quella musica dando le spalle al sole. Una gran festa che durava fino a quando sentivo in lontananza l’urlo di papà che diceva a Chiara: «A ddhru ste ddhru minchia de fratuta, va’ chiamalu, va’[8]». E allora il suono si deformava pian piano sino a sfumare come un leggero sottofondo e poi scomparire.
tratto da Il Mangialibri di Michele Stursi, L’Osservatore Nohano, 2010
[1] Antico mezzo di locomozione in legno dotato di due ruote e trainato da cavalli, utilizzato in passato per il trasporto di persone e prodotti agricoli.
[2] Zappa.
[3] Innaffiatoio.
[4] Paletto in legno a forma di “L” che serve per fare dei fori nel terreno, dove calare le radici della piantina.
[5] Pompa a mano che serviva (utilizzata tutt’ora) per inzolfare le viti.
[6] Il pazzo.
[7] «Vieni a raccogliere il tabacco, altro che hobby».
[8] «Dov’è quello stupido di tuo fratello, vai a chiamarlo».
C’eravamo lasciati con la pioggia e anche se questa continua a sferzare sadica il protagonista, per fortuna qui fuori c’è il sole.
Non so se Pasquale avesse pensato alle conseguenze che si sarebbe tirate dietro il suo ritorno, ma so di certo che tornare o andare è spesso un istinto irrefrenabile, un cunicolo che ti risucchia senza lasciarti scelta. Nella mente del simpatico ‘figliol prodigo’ si accendono man mano ricordi e suggestioni come i ceri votivi nelle mani di vecchie beatille. La sfilata inizia con le strade, la masseria dismessa teatro di giochi e spensieratezza infantile, la grande chiesa in piazza, i vicoletti del centro storico lanciati in corsa alla ricerca sempre più ravvicinata del centro della sua esistenza, la casa. Pur piccola e modesta che sia, la casa è il fulcro della storia di un individuo, la vernice che lascia i suoi segni addosso a un uomo per sempre.
Il non riuscire a identificarla fiacca Pasquale facendogli sentire ancor più il peso della pioggia, della stanchezza e della delusione. Un attimo ed ecco materializzarsi davanti ai suoi occhi un particolare familiare, le colonne in pietra leccese che aprono l’ingresso al cortile, il suo cortile. Il sole dei ricordi esplode d’improvviso annullando la pioggia e la fatica e s’impossessa di ogni particolare per fare breccia nel cuore del protagonista allo stesso modo di quando un esule salentino torna nella sua terra: tutto gli appartiene e la memoria marca ogni immagine come un cane padrone del suo mondo. Emozionante sentire attraverso i pensieri di Pasquale l’umiltà della vita di un tempo, le abitudini dettate dal sacrificio e nobilitate dalla dignità della sua famiglia, dignità comune a tutta la nostra gente di Salento. Ed ecco in agguato lo scontro tra generazioni, tra due sensibilità diverse, quella del vecchio padre, contadino indurito dal sudore, e quella del figlio, giovane vita proiettata verso la spiritualità delle cose, a iniziare da Mozart. Bruciano come scudisciate le ingiurie rabbiose e affettuose di un padre che con uno schiaffo cerca a suo modo di salvare il figlio da un demone sconosciuto che quello chiama ‘Hobby’, un mondo frivolo fatto di parole, musica, magari poesia, insomma, tutte cose che, nella mentalità antica, avrebbero portato il suo ragazzo alla perdizione e non al pane.
Chissà se veramente Chiara, la sorella di Pasquale, dal giorno della sua partenza lo abbia cancellato dalla sua vita fino a dimenticarsene. Il citofono della sua vecchia casa direbbe proprio così… Un’ilarità di reazione trascina allora il protagonista ad estraniarsi da questo nuovo dolore immedesimandosi in Gene Kelly in ‘Singing in the rain’. Sarà stato per l’imput del ‘Canta che ti passa’? L’autore di questa intensa e realistica storia conosce il significato della solitudine e costruendo le scene che seguono all’amarezza delle scoperte del suo protagonista, ne enfatizza la brutalità costruendo scene di dolore mascherato, pur addolcendone il morso con la piccolezza pettegola di paese, quella capace di tessere ricostruzioni e supposizioni sfornando fresco, fresco un soprannome al primo passante in odor di ‘stranezza’. Per fortuna la pioggia risparmia a Pasquale l’ingiuria di ‘Pacciu’ perchè tiene chiuse le imposte delle case e aperta la fantasia salvifica del protagonista. Se quindi ‘Al cuor non si comanda’, niente può neanche fermare la nostra curiosità di leggere e scoprire le splendide avventure del nostro romantico pisano di Noha.