di Michele Stursi
Arrivo. Ho abbandonato per sempre Pisa.
Dopo quattordici scomodissime ore di viaggio, eccomi giunto a destinazione.
Se ci penso, mi viene da piangere: gettato per terra come un sacco di patate in uno scompartimento di un treno che non so perché, forse per il puzzo nauseante di urina o il sudiciume nero che impregnava l’ambiente e persino l’aria, mi ricorda il treno della disperazione. Quei treni merce su cui uomini, donne e bambini erano caricati come animali, o meglio come bestie senz’anima e sentimenti, e trasportati all’inferno.
Queste ripugnanti scene riemergono dalla mia memoria come sangue da una ferita profonda. Quante volte mi sono messo a piangere dinanzi a quelle immagini sulla deportazione degli ebrei nei lager nazisti, quante volte sono stato assalito da una rabbia accecante e quante di quelle volte ho pensato che l’uomo è davvero un deficiente, la più stupida delle creature. Me lo immagino io il “primo uomo” mentre rigira tra le sue rozze mani il libretto delle istruzioni, nel tentativo di capire quale tasto premere per avviare la “ragione”. Povero “primo uomo”, notte e giorno a tormentarsi nel letto nella speranza di riuscire a trovare la soluzione al problema, e poi esausto, eccolo che pensa, grattandosi la nuca con la clava, “ma che me ne faccio io della ragione, inventerò prima o poi qualcosa per sostituirla!”. Allora un bel giorno inventa il computer, ma continua a fare la guerra, a massacrare milioni di persone.
Forse che la ragione ha bisogno di una testa e non di una scatola di metallo! Che ne dici uomo?
Nonostante tutto, sono arrivato a Noha, punto di partenza per una nuova avventura, forse l’ultima. Ho scelto questo piccolo paesino come trampolino di lancio verso gli ultimi anni della mia vita, questo invisibile e sconosciuto centro abitato nel cuore del Salento per realizzare il mio sogno.
Il cartello rettangolare con la scritta NOHA, su uno sfondo giallognolo mangiato dalla ruggine, mi conferma che sono a casa. Mi guardo intorno: qui tutto è rimasto intatto, come conservato sotto una campana di vetro. Alla mia destra riconosco la masseria Colabaldi, abbandonata a se stessa non so da quanti decenni, o forse secoli, visto che quando lasciai questa terra la situazione non era molto diversa da come si presenta ora dinanzi ai miei occhi. Un vecchio edificio rosicchiato dal tempo.
La fronte corrugata, gli occhi lucidi, un sorriso stampato sul mio viso ormai segnato dalle rughe, cicatrici che la vecchiaia segna con una penna indelebile: tutto questo mentre ripenso alla giovinezza che fu, a quando scalzo, con un paio di pantaloncini sdruciti e una maglia di lana sporca di terra e bagnata sul petto dal sudore, rincorrevo, sotto i raggi arancioni del sole in fiamme, un pallone di cuoio marrone, duro come un’anguria. E quando si correva tra le erbacce e i sassi in quel terreno incolto che circondava la masseria, non pensavamo a nulla. Ogni tanto, poi, qualcuno calpestava un sasso appuntito, batteva con le dita dei piedi su un masso oppure beccava un rasapiedi[1] e allora incominciava a saltellare su una gamba, con i denti stretti per trattenere le urla di dolore; era costretto a fermarsi, a prendersi il piede con le mani e sputarci della saliva sopra. Ma due secondi dopo rientrava in campo zoppicando e subito dimenticava il dolore e riprendeva a inseguire, come un forsennato, quella palla.
Ora quel campo è ancora pieno di erbacce e sassi, ma non si sentono più le urla di quei ragazzi. Si ode solo il vento prestare la sua voce al vuoto.
Assorto nei miei pensieri, ascolto in sottofondo la voce del tassista che mi avverte che siamo arrivati. Faccio cenno di sì con la testa e mi catapulto fuori dal taxi. Sbatto con forza la portiera, riprendo la valigia e pago. La vettura mi scorre dinanzi, la fisso mentre va via e mi scopro abbandonato in una piazza. Contemplo il cielo buio punteggiato da minuscole stelle bianche, poche per la verità, e cerco di nascondere in questo modo la forte paura di guardarmi intorno. Un bel respiro profondo, abbasso lo sguardo e prendo contatto con la mia vecchia Noha.
Gli ultimi trent’anni della mia vita mi si proiettano dinanzi come impressi su una vecchia pellicola cinematografica fino a riportarmi, fotogramma dopo fotogramma, indietro nel tempo, al giorno della mia partenza.
Ricordo un giorno di fine settembre, precisamente il trenta settembre. Rivedo ancora il volto di mia madre straziato dalle lacrime, quello di mia sorella nascosto dietro la gonna della nonna, e mio padre che stringe con forza la sua mano da contadino alla mia, mi bacia sulla fronte come per darmi la sua benedizione e, dopo essersi guardato intorno, infila la sua mano nella tasca della mia giacca di velluto verdone e mi consegna i risparmi di una vita.
«Me raccumandu, apri l’occhi[2]».
Ancora ricordo il vocione di papà, il suo volto serio come una statua e sullo sfondo quello rosso dalla disperazione di mia madre, coperto dai lunghi capelli ormai quasi tutti bianchi, quei pochi che riuscivano a scappare dal fazzoletto che teneva sempre sul capo.
Un nodo alla gola mi trattiene il respiro; mando giù e stringendo i pugni mi guardo intorno.
Piazza San Michele è vuota: una tetra atmosfera giallognola abbraccia i quattro lati della piazza. Un enorme quadrato con gli spigoli smussati da strade, che non riconosco più. Qualcosa manca, ma non so ancora spiegarmi cosa.
Come su un palcoscenico, durante lo spettacolo: luci soffuse e silenzio nella sala. Lo scenario è stupendo. Un sottile filo di vento accarezza una lacrima che si affaccia dal mio occhio destro e che tronco sul nascere, asciugandomi il volto con la manica della camicia. Il resto è tutto immobile, fermo, paralizzato.
Eccellenti attori si alternano sul palco con battute fredde. Letteralmente fredde: brividi che scorrono lungo la schiena come cubetti di ghiaccio.
Seduto nelle ultime file un solo spettatore pagante: il silenzio.
La strada è vuota e davanti a me si presenta un enorme blocco di pietra leccese rigato dall’ombra di una torre sconvolta dal tempo.
“È immenso il potere della luce sul buio”: pensiero ruzzolante, solitario, nella mia mente.
Sono solo le sette di una fredda serata d’inverno e mi sento un invisibile sassolino al centro di questo teatro di ombre. La facciata della chiesa è meravigliosa nel suo volto pulito, senza rughe, splendente di nuovo restauro. Un trattamento con botulino riuscito alla perfezione.
E mentre contemplo tutto ciò, la sento arrivare. Mi siedo un attimo sul marciapiede e tolgo in fretta dal taschino un taccuino e la mia inseparabile matita.
Sì, è lei, quella maledetta paura che mi costringe a imprimere tutto su carta. Ormai è una mania che mi perseguita da qualche anno, ne sono cosciente, e precisamente da quando ho smesso di lavorare. La paura di dimenticare mi obbliga a tracciare i miei ricordi su dei miseri fogli di carta. Questa fottuta paura non si fida più del mio cervello, della mia scricchiolante memoria. E secondo me fa benissimo. Il problema è che delle volte mi mette in forte difficoltà, mi fa passare per un maniaco, un pazzo artista con qualche rotella fuori posto che, dovunque si trovi, deve necessariamente disegnare. Disegnare per vivere, per non morire soffocato dalle mani possenti della paura di dimenticare.
Ed è quello che faccio. Disegno, appunto. Come un vecchio rimbecillito ripeto ad alta voce i miei pensieri mentre traccio delle linee. «Basta prendere un enorme parallelepipedo, su una delle facce più piccole disegnare un enorme portone rettangolare; in alto, alla stessa altezza, di fianco al portone, due nicchie a forma di U rovesciata ricavate nella pietra. Ecco fatto! Ora, per dare un tocco d’arte, disegno sulla sommità della stessa faccia un triangolo e sopra il portone pongo un cerchio con una vetrata variopinta».
Per niente facile! Solo geometria.
E i miei sentimenti? Non tracciabili dalla linea della matita.
Non sono un geometra, né un architetto. Amo disegnare, ma sono cosciente del fatto che il disegno a volte non dice tutto. Se un’immagine, invece che stare lì sul foglio a guardarti inebetita, fosse animata, parlasse, raccontasse, se non altro renderebbe il mio lavoro più facile.
Non sono solo figure geometriche, ne sono convinto. Un critico d’arte, al mio posto, non avrebbe provato nulla di fronte a quella lastra di pietra. Ma io, non è la prima volta che assisto a un tale spettacolo. Quel silenzio, un cellofan che la confeziona come una deliziosa bomboniera; quell’ombra, una mano oscura che cerca di violare la verginità di quel silenzio. “Atti vandalici/di una torre dell’orologio/alle mie spalle”, ricordo ancora le parole di una poesia recitata da mio nonno, una serata di Agosto in cui la luna era diventata cocente come il sole.
Mi volto, alzo lo sguardo e noto quell’orologio incastonato nelle interiora di una maestosa aquila dalla testa mozzata. Il tutto venato da macchie nere di umidità.
Confronto quella visione con l’immagine sbiadita che ho ripescato nei miei ricordi. Non sono in grado di descrivere il battito affrettato del mio cuore, la confusione di ricordi che ha creato la visione di quella piazza.
A un tratto una goccia cade sul mio disegno; controllo con le mani il viso; non piango. Allora? Un’altra, un’altra ancora. No, si mette a piovere.
Velocemente chiudo il taccuino e lo rimetto insieme alla matita nel taschino; prendo con me il fagotto di malinconia, ed esausto, mi alzo da terra e mi metto a correre sotto la pioggia. Perdo qualcosa per strada, mi guardo indietro, niente; continuo a correre, ma non riesco proprio a liberarmi di quei ricordi.
Attraverso la piazza per imboccare una delle quattro strade che mi circondano.
Via Castello. Mi fermo. Mi guardo intorno. Nessun punto di riferimento emerge dalla mia memoria.
Ancora una volta il gioco di luci e ombre è indescrivibile. E per un attimo ho l’impressione di trovarmi in Mistero e malinconia di una strada di Giorgio De Chirico. Idem. Forse io avrei utilizzato meno luce e più ombra nel mio dipinto. Per il resto uguale: un uomo che corre inseguendo non so cosa, impaurito dalla sua stessa ombra, che si allunga come ad afferrarlo e inghiottirlo.
Continuo per questa strada. Ecco, ora comincio a ricordare: è rimasta intatta. La casa baronale è ancora abbandonata al suo degrado, nelle sue viscere vive ancora il circolo “Juventus” e il bar di Liana, se ricordo bene Bar Castello. Sì, proprio così, lo leggo dall’insegna a caratteri rosa, un tempo forse rossi.
Un attimo, e quella cos’è? Non ci posso credere, quella è la fontana alla quale mamma mi mandava per attingere l’acqua, quando ancora in casa non c’era. D’estate, quando l’afa non ti lasciava respirare e sentivi le bolle di calore venir fuori dall’asfalto e bruciarti i piedi e poi il viso, io andavo a prendere l’acqua fresca, con un pesante secchio di ferro zincato sulle spalle e saltellando, perché mi scottavo i piedi. Non vedevo l’ora di arrivare per mettere la testa sotto l’acqua ghiacciata.
Anche ora la piazza è deserta. Sembra non sia cambiato veramente nulla.
Mi fermo vicino la fontana per dissetarmi, asciugo con la mano l’acqua che scorre sotto il mio mento e leggo in alto su un cartello, via Osanna. Sorrido e mi avvio per questa minuscola via, incurante della pioggia che continua a bagnarmi.
tratto da Il Mangialibri di Michele Stursi, L’Osservatore Nohano, 2010
[1] Piccolo frutto pungente e spinoso della pianta selvatica Tribolulus terrestris.
[2] «Mi raccomando, stai attento».
La prima parte in:
http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2012/02/02/il-mangialibri-parte-prima/
Cominciava a mancarmi “Il mangiatore di libri”… Se Michele è tornato, non può che essere una grande gioia per tutti, tale è la ricchezza del suo bagaglio umano. Ad accoglierlo a Noha, suo paese di origine, ricordi nitidi come un cielo senza nuvole, parlanti come un film in bianco e nero, pulsanti di emozioni come un cuore aperto.
Che miracoli portentosi compie la mente umana! Ferma immagini e le fa rivivere tale e quali a come si svolsero nel loro tempo, meglio di un computer e di qualche aggeggio futurista ai raggi fotonici: l’uso intelligente del cervello, la vera risposta all’evoluzione; averne uno in disuso come la masseria Colabaldi a Noha, il rammarico di un’ingiusta decadenza e il pericolo di un suo crollo delittuoso.
Per fortuna c’è il sentimento, lo stesso che fa piovere emozioni alla pari dei capricci del tempo, firmando armistizi con la paura e l’età attraverso carta e penna. E questi due poveri oggetti ci renderanno immortali, caro Michele, come pure renderanno immortale tutto ciò che al mondo amammo e vivemmo sperandolo eredità per tutti.
Grazie Raffaela. Non ci conosciamo purtroppo, ma dalla lettura del tuo commento riesco a capire tante cose di te… Chiudo gli occhi e ti immagino (non alla George Clooney) non solo come una lettrice attenta e romantica (specie in estinzione di questi tempi), ma soprattutto ti vedo intenta a battere con parsimonia i tasti della tua tastiera allo scopo di dare forma ai tuoi pensieri. Sai tenere in mano la penna come un pennello, mi verrebbe da dire. A piccoli tratti sei riuscita a consegnarmi questo piccolo gioiello di commento che conserverò nel cassetto dei miei ricordi. Noi non ci conosciamo, dicevo, ma la scrittura fa miracoli, unisce le persone, crea una ragnatela di emozioni dentro cui si rimane piacevolmente intrappolati. Grazie Raffaella, grazie a te che, seguendo la massima di Carmelo Bene, fai del tuo pensiero un risultato del linguaggio. Michele