Marcello Gaballo / Francesco Danieli, Il mistero dei segni. Elementi di iconologia sacra nella cattedrale di Nardò tra medioevo e età barocca
Galatina 2007 pp. 117 – € 20
La prefazione di questo libro esordisce con un brano della Lettera agli artisti scritta il 4.4.1999 da Papa Giovanni Paolo II, inerente all’arte come funzione mediatrice tra lo spirito celeste e il mondo visibile, e introduce con profonda elegante precisione al vasto, complesso ed affascinante argomento felicemente trattato dal testo: la riscoperta e l’esame dei dipinti eseguiti sulle travi lignee della cattedrale neritina (tornate alla vista nel 1892 e poi perdute), seguito da un saggio tecnico sulla loro struttura, e da un altro sull’Altare delle Anime realizzato per la medesima chiesa nel 1698 dal Sodalizio dell’Orazione e Morte. Il testo prende spunto dai diversi modi con cui è possibile accostarsi all’opera d’arte, e dai punti di vista più o meni approfonditi che permettono di farlo, passando presto alla differenza tra iconografia e iconologia: da qui iniziano i molti cenni agli autori ed ai testi del XVI secolo (in primis a Cesare Ripa), con colti rimandi a bagagli culturali paralleli e precedenti quali bestiari, erbari e lapidari dei primi tempi dell’era cristiana, ed ai loro antesignani della tradizione classica.
Subito dopo, gli autori entrano nel merito della trattazione: alcuni cenni storici sulla cattedrale di Nardò, e più in specifico sui rifacimenti della copertura a inizio XVII secolo (dei quali restano i documenti di spesa e le relative ricevute), preludono alla narrazione delle ristrutturazioni volute nel 1892 per il ripristino all’antico dell’edificio. Procedura oggi filologicamente discutibile, ma che peraltro permise di riscoprire nel soffitto le superstiti travi dipinte (oggi quasi tutte sostituite da altre in larice) e i loro decori, subito ricopiati da due artisti presenti al restauro e rimasti colpiti dalla geniale bellezza dei manufatti.
Un’impresa meritoria, che ha salvato queste importanti testimonianze pittoriche dall’oblio. La parte scritta dell’opera è (doverosamente) accompagnata dalle riproduzioni a colori di dette copie, affiancate a fotografie e disegni pertinenti ad altre fonti artistiche d’epoca antica – a partire dal celebre Arazzo di Bayeux, ricamo su tela normanno dell’XI secolo – che permettono interessanti raffronti tra manufatti differenti: gli autori, ben consci del respiro universale dei simboli e della loro capillare diffusione nei vari ambiti della cultura antica, intelligentemente allargano il campo della loro ricerca a tutti i generi di manifestazioni d’arte, non solo ai pochi altri esempi esistenti di soffitti a travature dipinte (fra cui quello di palazzo Steri a Palermo), ma anche a sculture e mosaici, riuscendo ad identificare con relativa sicurezza la maggior parte delle figure presenti sulle travature di Nardò.
Un’operazione di non poco conto, se si considera che queste figure venivano sì realizzate in maniera per così dire “standardizzata”, ma secondo canoni ben diversi dai nostri attuali concetti di standard figurativo seriale. Gli autori procedono parlando dei più diversi simboli fino a p. 43 ove, su tre pagine, si soffermano sulla parte araldica del lavoro, la quale si sostanzia in figure araldiche senza scudo, oppure inserite liberamente all’interno di decori dai contorni più diversi, o in più rari stemmi completi di “veri” scudi: ciò si spiega col fatto che l’edificio venne radicalmente riattato, anche nel soffitto, dopo un rovinoso terremoto avvenuto nel 1245, epoca in cui l’ostracismo ecclesiastico verso gli oggetti d’arme probabilmente indusse i pittori delle travi a realizzare su di esse soltanto i simboli e non anche gli scudi. A quel periodo risalgono le aquile forse sveve, le croci forse teutoniche, i tori poi passati all’arma civica, e tutte le altre figurazioni araldiche “libere” che qui vediamo, seguite nel tempo da figure emblematiche di cospicue famiglie locali, da stemmi o stemmoidi non ancora identificati, e da stemmi conseguenti ai numerosi interventi manutentivi delle epoche più tarde.
Tutti questi fattori, uniti al naturale degrado delle pitture ed alle possibili imprecisioni dei riproduttori ottocenteschi, hanno spinto gli autori a dare attribuzioni probabilistiche circa i titolari degli stemmi medesimi: prudenza saggia, e utile preludio ad auspicabili approfondimenti araldici futuri.
Terminato il lato simbolico, il testo passa all’esame tecnico delle poche travature dipinte superstiti, tutte situate in scomoda posizione sopra il presbiterio; dopodiché, si torna alle questioni iconologiche nel parlare dell’Altare delle Anime, manufatto barocco sopravvissuto alle epurazioni di inizio XX secolo. Di esso si delinea la committenza e la realizzazione sovrabbondante di decori, rifinita come una trina, ridondante come la sua epoca, ma ricca di segni e significati, degna cornice alla tela in essa racchiusa ed effigiante la Vergine col Bambino e le anime purganti.
La composizione scenica dell’insieme e i numerosi temi iconografici affrontati vengono valutati con cura ed esaminati con attenzione, senza trascurare le fonti sacre e i moventi teologici, tutti indagati e spiegati tenendo in debito conto le parallele fonti “laiche” (come l’Iconologia del Ripa menzionata fin nelle ultime pagine del testo) e l’agiografia dei diversi Santi effigiati: compreso l’insolito (dal punto di vista delle consuetudini cultuali italiche) San Patrizio che cima l’altare e che costituisce la maggiore fra le tante inattese sorprese riservateci da questo stupefacente manufatto, oltre che dall’intero testo nel suo insieme.
La lettura del volume è molto facilitata ed ottimamente assistita dalle grandi e belle illustrazioni di accompagnamento, rese anche a tutta pagina (il testo è in formato A4 grande), per un totale di 199 figure in bianco-nero e a colori, talora desunte da altre fonti, molto spesso costituite da foto o disegni originali appositamente realizzati.
Il testo viene ulteriormente dettagliato da 158 note sparse fra i diversi capitoli, e seguito da una bibliografia estesa su tre pagine e mezza, fitte di titoli fra cui tredici a soggetto araldico e cavalleresco (va ricordato che uno dei due autori è socio IAGI) e la citazione di un articolo pubblicato su Nobiltà (S. Bracco, L’Ordine Teutonico, Nobiltà n° 18, maggio 1997, p. 289 e segg.), oltre a numerosi altri più strettamente legati all’iconologia ed alla simbologia.
Maurizio Carlo Alberto Gorra (IAGI, AIOC)
A margine della pur dettagliata e colta descrizione dell’altare delle anime, dei due autori, nella cattedrale di Nardò (secondo a sinistra dall’ingresso principale), vedere anche l’ipotesi che legge nell’impostazione strutturale, proprio di quell’altare, per conformazione ‘a taglio verticale’ relativo al posizionamento della concavità netta decisa fra le colonne tortili, una sezione stratigrafica e scolpita del leggendario ‘pozzo irlandese di san Patrizio’. Il pastorale mancante nella mano del santo irlandese o il trifoglio che appare intero, alla cintola del primo angelo (a sinistra accanto al santo sulla cimasa) e diviso in tre nel secondo (a destra), caratterizzano, in particolare la vita e gli strumenti dell’evangelizzazione di san Patrizio nella sua fase di risimbolizzazione degli attributi, in terra celtica. Poi, la leggibilità dell’intero apparato, lasciata alla sola luce radente naturale, indica l’incavo verticale come unico vettore (pozzo) moralizzante e ascensionale via di fuga e speranza di elevarsi dopo i livelli fitti e cesellati dell’espiazione secondo i precetti della cristianità. L’altare, ritengo, non può chiamarsi genericamente “delle anime purganti” o “del Purgatorio”, ma è attinente in particolar modo all’evento del santo irlandese, quindi il nome è altare “del pozzo di san Patrizio” o “del Purgatorio di san Patrizio”.
Paolo Marzano
http://culturasalentina.wordpress.com/2013/09/30/il-salento-delle-citta-apparate-lirlandese-pozzo-di-san-patrizio-a-nardo/