di Michele Stursi
Una luce accecante penetra dalla fessura che si apre tra le mie palpebre pesanti come saracinesche. Sono come in catalessi: gli arti inferiori indolenziti e gettati per terra su un ruvido marciapiede, le braccia pendono inerti sui miei fianchi. Sono confuso e infreddolito; sento i vestiti carichi d’acqua piovana aderire sul mio corpo flaccido, viscido. Tremo, non ho la forza di caricare sulle spalle la mia carcassa e portarmi via, al riparo.
In lontananza sento il grido esasperato di un gallo avvertire che ormai è l’alba e il sole sta cominciando a sorgere dietro gli ulivi. Voglio aprire gli occhi per vedere i suoi raggi frantumarsi tra i rami e le foglie di quegli alberi, abbattersi sui vigneti e poi infine, sfiniti, strisciare leggeri sulla rugiada, stesa sull’erba come un velo di seta. Voglio vedere la foschia soffocare tra le mani possenti dell’alba; voglio sentire il canto soave degli uccelli sostituire il bubbolio dei tuoni e lo scroscio della pioggia. E mentre il mio corpo diafano giace per terra e si lascia trafiggere come una goccia d’acqua, ripeto dentro di me i versi di una poesia di Emily Dickinson.
“La luce del mattino mi eleva di grado
se qualcuno mi chiede come
risponda l’artista che mi tratteggiò così”.
Un rumore mi frastorna. Sento una macchina accostare, uno sportello aprirsi e poi la voce di un uomo: «Tutto bene?». Un sussulto e poi sollevo un braccio in aria come per dire “non si preoccupi, sto bene”. Lascio cadere la mano per terra e faccio forza sul mio polso; provo a sollevarmi ma non ce la faccio. Sto male. Dopo una nottataccia passata sotto la pioggia non ho più quel soffio di vita che mi permette di vivere attimo dopo attimo, è volato via, trascinato da un sordo battito d’ali di farfalla. E ora me ne sto ad ammirare l’alba come se niente fosse, tossendo come un dannato e sudando freddo. Il mio cuore batte piano, anche lui ormai estenuato.
“Non avessi mai visto il sole
avrei sopportato l’ombra
ma la luce ha aggiunto al mio deserto
una desolazione inaudita”.
Poi d’un tratto un tonfo e niente più. Buio nei miei ricordi.
Mi risveglio con un cuscino morbido e profumato sotto il capo, delle lenzuola candide sul mio corpo asciutto. Mi sento leggero ora, come se fossi nudo. Apro gli occhi di scatto, la luce offusca la mia vista, mi gira la testa e ricado sul letto stremato.
«‘Na broncupolmunite tene, aggiu ‘ntisu i duttori ca dicìanu cusì. Ave de ‘sta matina ca sta ddorme[1]».
«L’hannu ‘nduttu cu la ‘tombulanza. Tremulava comu nu vinchiu e era tuttu mmuddhratu[2]».
Sono in ospedale, o Dio mio, che ho combinato?
Provo nuovamente a sollevarmi ma i miei tentativi risultano del tutto inutili.
«Stia calmo, non si agiti. Ora arriva sua sorella» – mi sgrida un’infermiera.
Mia sorella? Hanno avvisato Chiara. E ora che figura ci faccio? Posso presentarmi in queste condizioni a una persona che non mi conosce e che potrebbe farsi un’idea sbagliata di me? Non si può, no, non possono farmi questo, non posso dire a Chiara che ho passato la notte su un marciapiede, per strada, solo perché avevo paura.
«Eccolo, è di là. L’ultimo letto, sotto la finestra».
Troppo tardi ormai per stare qui a elucubrare il modo per risparmiarmi questo supplizio. Dovevi pensarci prima Pasquale, prima di comportarti come un ragazzino e rifiutarti di ragionare.
Allora quando arriva? Silenzio. Sto con gli occhi chiusi, rivolti verso la luce che entra dalla finestra. La sento alle mie spalle, sento il suo respiro farsi forte. Ma perché non parla? Un’ansia terribile mi assale.
Allora ti decidi a reagire? Ti decidi a fare il fratello maggiore, a girarti verso di lei e tranquillizzarla? O la vuoi fare soffrire ancora? Pessimo vigliacco che non sei altro, la vecchiaia ti ha consumato anche quei pochi neuroni funzionanti che avevi.
La mia coscienza è esausta, non mi sopporta più neanche lei.
Mi giro, la fisso negli occhi, incrocio il suo sguardo. Accecato dalla mia pavidità sono tentato di rivoltarmi verso la finestra e mordermi le nocche delle mani mentre mi lascio scivolare in un pianto ininterrotto. Lei non mi dà il tempo neanche di pensarci, si avvicina a me senza dire mezza parola e mi abbraccia. Sento le sue braccia avvolgermi il collo, i suoi capelli strisciare sui miei occhi e le sue lacrime bagnarmi la guancia. Stringe le dita sulle mie spalle come per afferrarmi e trattenermi con lei per sempre e poi tra i singulti mi sussurra all’orecchio: «Ti aspettavo, fratellone».
Quella notte ho pregato, ho pregato tanto, rannicchiato come un feto sotto le coperte, i pugni chiusi sul petto, il capo piegato sulle ginocchia e gli occhi serrati, per trattenere le lacrime.
Ho anche pianto, ma alla fine ero soddisfatto di com’erano andate le cose.
Di sicuro il buon Dio ci aveva messo del suo.
tratto da Il Mangialibri di Michele Stursi, L’Osservatore Nohano, 2010
[1] «Ha una broncopolmonite, ho sentito dire dai dottori. È da stamattina che dorme».
[2] «L’hanno portato in ambulanza. Tremava tutto ed era completamente bagnato».
Il racconto precedente si legge in: http://spigolaturesalentine.wordpress.com/tag/michele-stursi/