di Daniela Lucaselli
Un’emergenza archeologica: la cripta del Redentore, la più antica sede del culto cristiano di Taranto, situata nel Borgo Nuovo, dopo circa trent’anni in stato di abbandono, è stata aperta alla cittadinanza nel mese di dicembre 2010, grazie all’impegno di associazioni cittadine, storici ed archeologi.
L’antico monumento post-classico, ubicato in Via Terni, è una pregevole testimonianza delle origini cristiane, un prezioso documento e bene del patrimonio storico artistico della città bimare.
La piccola chiesa ipogea necessita di un consistente ed urgente intervento di consolidamento e restauro, per rinsaldare la ormai compromessa staticità. La volta è purtroppo sfondata e invasa da tubature di servizio.
Fonti letterarie del IV secolo attestano che Taranto, città portuale, fu proprio in questo periodo aperta ad ogni innovazione in campo religioso e il Cristianesimo trovò il terreno fertile per affermarsi. La cripta in esame rappresenta a proposito un primo esemplare monumentale.
Originariamente la cripta ipogeica era una tomba a camera di età classica, situata esattamente dove prima sorgeva la grande necropoli della Taranto greco-romana.
La struttura, che misura 3.90×3.70, è interamente scavata nel tufo, cinque metri sotto il livello stradale, ed è resa accessibile da un ingresso, un antico pozzo, composto da 12 scalini. Questo immette nella camera di forma circolare del diametro di circa otto metri. Nella parete est è stata ricavata un abside e sullo strato d’intonaco più recente, di matrice bizantina, risultano affreschi iconografici di alta qualità, di particolare pregio e di notevole bellezza (oggi in grave stato di degrado) raffiguranti il Cristo Pantocratore (Signore di ogni cosa) fra san Giovanni e la Vergine, mentre le pareti laterali sono decorate con figure di santi venerati nel mondo orientale bizantino (è possibile riconoscere San Basilio, Sant’Euplo e San Biagio), cui la comunità tarantina nei secoli 800-900 d. C. era strettamente legata.
Questi affreschi sono databili intorno al IX-XII secolo, anche se si presuppone l’esistenza di almeno un altro strato, più antico, risalente all’800-900 dopo Cristo.
I dipinti sono contrassegnati da iscrizioni greche che indicano il soggetto rappresentato. A mezza altezza tra la Vergine e il Cristo Pantocratore si legge il nome di “Luca”, riferito probabilmente al committente o all’esecutore dell’opera.
La chiesa è collegata ad una grotta ove è presente un pozzo di acqua sorgiva, un tempo dedicato al culto di Apollo e dove, secondo una leggenda molto antica, riportata nell’‘Historia Sancti Petri’ del IX secolo, l’apostolo Pietro, diretto a Roma, si sarebbe fermato a Taranto e avrebbe somministrato il battesimo ai primi cristiani della città.
Si racconta, infatti, che il santo, giunto in città, avendo necessità di dissetarsi si sarebbe recato verso il luogo sacro dove sorgeva il “Pozzo del Sole” e che ospitava una statua in bronzo di una divinità pagana, probabilmente Apollo. Il Santo si fece il segno della croce, dedicò quel luogo a San Giovanni Battista e la statua si frantumò.
Cesare Giulio Viola nella sua grande opera “Pater” così racconta:
– …E s’avvia, Pietro il pescatore, verso la città… Aveva sete. Presso la Rinopila (una porta di Taranto antica) stavano alcuni pescatori. Gli indicarono il tempio. Sulla porta del tempio s’alzava una statua solenne di Apollo Helios, opera di Lisippo: al suo fianco chioccolava una pubblica fonte. Volle bere: ma il gobbo Niccodemo che stava a guardia, gli ordinò: “Adora et bibe!”. Chi avrebbe dovuto adorare Pietro il pescatore? Il dio del Sole. Un dio pagano. Si rifiutò. Alla disputa che nacque tra il gobbo e il pellegrino vennero sulla soglia del tempio i sacerdoti. La disputa si mutò in un diverbio. E la gente accorse. Solo era, Pietro il pescatore, di fronte alla turba vociferante. E annunciò al popolo le parole di Cristo. “Io sono la luce del mondo, chi segue me non cammina nelle tenebre”… “Ah! Ah!” Fece Niccodemo. “E tu che parli in nome del Messia, opera anche tu un miracolo, se vuoi che ti creda!” “Noi siamo gerosolimitani: il nostro fonte è il Giordano, dove fu battezzato Gesù Cristo, che è l’unico vero Dio, e questo segno, mangiando e bevendo facciamo”. Al segno della Croce l’immensa mole marmorea della statua di Apollo Helios crollò tra lo stupore e il terrore degli astanti. I primi cristiani furono battezzati con l’acqua del fonte che stava presso il simulacro del dio pagano”.
Il passaggio di S. Pietro da Taranto può essere attendibile storicamente, in quanto, in passato le navi, provenienti dall’Oriente o dalla Grecia e dirette in Italia, dovevano necessariamente sostare nel porto di Taranto per rifornimenti. I viaggiatori da qui potevano anche proseguire via terra verso Roma.
E’ in questo momento, siamo intorno al IX – X secolo dopo Cristo, che il luogo venne consacrato dall’apostolo al culto cristiano.
In età medioevale questo vano viene riutilizzato come basilica sotterranea.
Un atto notarile del 1047, custodito a Montecassino, attesta che i coniugi Martino e Donata cedono al Vescovo Cinnamo un terreno, ricevendo in cambio una parte della vigna coltivata presso il “Pozzo di San Giovanni”.
In età non certa, forse intorno al XII secolo, fu edificata, in prossimità della cripta, la chiesa di Santa Maria di Murivetere, come testimonianza del culto devozionale dei tarantini, legati per fede all’ipogeo.
La più antica chiesa di Taranto nel XIII secolo fu abbandonata.
Il 5 febbraio del 1578 l’Arcivescovo Lelio Brancaccio, presenza attiva nella controversia tra chiesa cattolica e greca, durante la sua visita pastorale alla chiesa di S. Maria di Murivetere, ordinò la chiusura del vano sotterraneo al culto, dicendo “Ne possint in illud homines ingredi”. Quale fu il motivo di quella decisione? Il prelato durante la sua visita aveva notato davanti la chiesa, in un giardino con alberi da frutta ed olivi, un antro adibito a stalla. Quell’antro era la cripta.
Piero Massafra nella sua opera “Sotto peso di Scommunica” rimembra questo particolare momento. Un diacono del presule, facendo strada al monsignore alla scoperta dell’ipogeo, lo esortava alla prudenza:
– “Eccellenza, la scala è lunga, ma giù è da vedere”.
Lampade e torce navigano la luce nelle viscere del passato. Cristo, al centro di una piccola abside, con la mano levata dà una benedizione solenne. Figure severe: Basilio, Biagio, e maceri eremiti.
“Cose greche!”. Quasi grida Brancaccio. “Si chiude tutto! I beni alla chiesa, tanto nun ce sta niente…”
Leggiamo la storia per analizzare criticamente i fatti.
In Italia, e in particolare nel Sud della penisola, erano frequenti i cenobi di monaci ortodossi, come, ad esempio, il Pope che a quell’epoca reggeva una comunità ortodossa a S. Crispieri, vicino Taranto. Le immagini iconografiche, tutte di squisita fattura bizantina, costituivano un affronto perpetrato, quasi seicento anni prima, dall’imperatore Bizantino, Leone III l’Isaurico, nei confronti della Chiesa di Roma, tanto da essere scomunicato da Papa Gregorio II, per aver voluto mettere la Grecia e il Sud dell’Italia sotto la protezione del patriarcato di Costantinopoli.
Gli editti di Leone III contro il diffondersi delle immagine sacre, la cosiddetta iconosclastia, e l’arrivo dei monaci Basiliani nelle nostre terre avevano arricchito il nostro territorio di chiese rupestri, con affreschi di encomiabile valore storico ed artistico.
Mons. Brancaccio non aveva saputo ben valutare tutto ciò. Di qui forse quella chiusura forzata che ebbe, comunque, il privilegio di preservare l’ipogeo dall’incuria urbana, anche se ne causò un oblio secolare e l’erosione delle pareti determinò il deterioramento delle immagini pittoriche e degli impasti cromatici.
Nel 1600 la cripta venne riaperta grazie alla devozione dei tarantini.
Ambrogio Merodio, nella sua “Istoria Tarantina”, ricorda di aver visitato la “grotta, dentro la quale è un antichissimo altare con l’immagine del Salvatore dipinto a fresco…, dentro la medesima grotta vi è un arco per il quale si entra in un fonte… E io sono del parere che questo sia il fonte del sole, dove bevendo S. Pietro, con il segno della croce fe’ rovinare il colosso…”
Subito dopo il monumento fu interrato… e si giunge al XIX secolo che vede il crollo e la demolizione della chiesa di Santa Maria di Murivetere.
A fine Ottocento, e precisamente nel 1899, la cripta viene riscoperta da un contadino, durante l’esecuzione di alcuni lavori in una proprietà dell’archeologo Luigi Viola, il fondatore del Museo Archeologico nazionale di Taranto.
Questo magico momento rivive ancora una volta nelle parole di Cesare Giulio Viola, figlio di Luigi, nella sua già citata opera “Pater”.
Il pozzo di acqua sorgiva sempre rigoglioso, ora, a causa dei detriti e della terra, era diventato avaro del suo bene più prezioso. L’acqua infatti non sgorgava più fluidamente.
– Una sera il terriere disse: ”Professore…L’acqua del pozzo s’è ridotta a un filo… Bisognerebbe ripulire il fondo…”-
Iniziarono i lavori e… “sull’intonaco superstite, si rivelarono figure di santi, e nel fondo, nel concavo abside, alta e solenne l’immagine del Cristo, assistito a dritta e a manca dalla Madonna e da San Giovanni…”.
La cripta fu denominata del “Redentore” in quanto, continua Cesare Viola, “a mio padre balenò il pensiero che Cristo gli fosse venuto incontro, nella sua pena…Ora io andrò a Pompei…Voglio fondare il santuario del Redentore…”.
Nel 1900 lo stesso Viola restaurò l’ipogeo che venne inaugurato ed aperto a credenti e visitatori in occasione del “Congresso Eucaristico Pugliese”.
Nel 1967, a causa di una continua erosione e in occasione dei lavori di allargamento di via Terni, dovuta all’espansione urbanistica della città, l’intero complesso venne sfondato e rischiò di essere interrato e morire per sempre.
Anni dopo, precisamente nel 1973, a seguito della denuncia di alcuni studiosi, R. Caprara, C. D’Angela, V. Farella e P. Massafra, il Comune di Taranto, gestito dalla Giunta Cannata, acquisì l’area riferita al “Redentore”.
Nel 1979 il Consiglio Comunale approvò e portò a termine un primo intervento di restauro per il recupero della cripta. Il progetto dell’ing. V. Donatone, sotto la direzione degli architetti C. Giummo ed E. Gigante, realizzò opere di consolidamento e di salvaguardia della struttura, come sistemare l’area e consolidare l’ipogeo, ma, nonostante tutti gli sforzi, gli affreschi non vennero restaurati.
BIBLIOGRAFIA:
- C.D. Fonseca, Civiltà rupestre in Terra Jonica, Milano-Roma 1970, p. 216, tav. 207;
- P. Massafra, Sotto peso di scomunica. Lelio Brancaccio e l’antichissima città (1574 – 1599), Scorpione editrice, Taranto (2007);
- Merodio, Istoria tarentina, a cura di C.D.Fonseca, Mandese, Taranto (1998);
- G. Viola, Pater, Scorpione editrice, Taranto (1998).
Le foto sono di Paolo Fiusco.