Simbolo di stanchezza e di riposo, di pausa, di sosta e di attesa, ma anche di solitudine e di problematiche esistenziali
di Nino Pensabene
Simbolo di stanchezza e contemporaneamente di riposo è la panchina. Simbolo di sosta, di pausa e anche di attesa: attesa per un gioioso appuntamento o nella speranza che qualcuno passi e gratifichi – sia pure con un semplice sorriso – la persona che, seduta e attraverso particolari atteggiamenti o comportamenti , rende vitale quella solitudine di cui la panchina vuota potrebbe esserne la rappresentazione.
Simbolo anche di problematiche esistenziali è la panchina, e a proposito – pensando appunto a tutte le problematiche dalle quali per forza maggiore si lascia coinvolgere – si può ben dire sia un personaggio non soltanto simbolico nella vita degli uomini, ma reale, addirittura familiare, alla stregua quasi del proprio letto, di una sedia o di una poltrona di casa.
Chi può asserire che per un motivo o per l’altro non ha mai avuto rapporti con una panchina? Oh, se parlassero le panchine dei giardini pubblici! E superficialmente si potrebbe pensare che hanno condiviso soltanto stanchezze fisiche facendosi donatrici di riposo, in certi casi supplendo alla propria sdraio o al proprio letto. Ma quante stanchezze psichiche hanno placato?! Chissà quante persone in un momento di disperazione si sono “buttate” su una panchina, rialzandosi poi e riprendendo serenamente il proprio cammino nella vita!
Io le panchine le paragono a dei confessionali, confessionali religiosi e nello stesso tempo laici, confessionali simbolico-spirituali e confessionali operativamente materiali, trasformati, cioè, in campo operativo del “peccato” stesso. Come infatti avranno silenziosamente risposto alle “Ave Maria” di qualche pia donna, sedutasi per godersi in pace il suo rapporto spirituale col Cielo, così avranno fatto finta di non sentire tutti i pettegolezzi espressi fra comari o le bestemmie di qualche povero infelice che non sapeva – poverino – dove sbattere la testa.
Se potessero parlare le panchine, chissà quante cose avrebbero da dire! Quanti segreti da svelare! Spaccio di droga, ideazioni o complotti di furti, speculazioni politiche o commerciali, ricatti a carattere sessuale o di qualsiasi tipo – a noi inimmaginabile -, meditazioni di vendetta o aperte promesse… e – a proposito di promesse – c’è da chiedersi a quante false promesse matrimoniali hanno assistito e a quante felicemente andate in porto attraverso una convivenza “eterna”.
Monumenti sono le panchine, e nel pronunciarne la parola mi tornano in mente i “mezzi busto” e le panchine di Villa Borghese a Roma: a quante tenere effusioni e a quanti squallidi rapporti sessuali hanno assistito nelle buie serate invernali quando ancora la lontananza del boom economico non consentiva un’autonomia riparata facendo dei parchi tanti teatri di incontri illeciti? Conosceranno tutte le parole dolci e tutte le bugie, conosceranno tutte le posizioni del Kamasutra e le scelte sessuali di parecchia parte di umanità. Prostitute, gay, travestiti, coppiette innamorate, amanti furtivi e amanti dichiarati, e tutti, tutti tutti con le proprie problematiche esistenziali al di là del momento godereccio, non escluse quelle contingenti della necessità di un rapporto protetto o di un coito interrotto o quelle involontarie – anzi non desiderate – di una eiaculazione precoce o di una squallida impotenza.
Povere panchine, macchiate di lacrime, di sangue, di sperma, di sputi e di bestemmie! Ma per contrasto, beate panchine, complici e disinteressate sensali di unione di solitudini, testimoni di sorrisi, di risate, di festosi giochi infantili, d’innocue confidenze e di sincere parole d’amicizia, di speranza e d’amore!
Vanno amate le panchine. E vanno amate non solo come utilissimo bene pratico collettivo, ma perché, come tali, è come se fossero parte integrante delle esperienze del vissuto quotidiano, è come se fossero un tutt’uno col nostro prossimo, è come se ci rappresentassero, controfigura di ognuno di noi in quanto membri dell’umanità potenzialmente usufruente. E non sembri assurdo se invito, passando davanti a una panchina vuota, a rivolgere lo sguardo con tenerezza, con affetto: chissà se qualche volta non ha accolto le membra di una persona a noi cara o non ha raccolto i suoi dolori o le sue gioie. Chissà se non è intrisa di fluidi a noi congeniali perché trasmessi da persone che avevano le nostre stesse caratteristiche, le nostre ansie o problematiche varie. Chissà se non voglia invitarci a sedere per trasmettere, attraverso un nostro rilassamento psichico, una positività, un incoraggiamento a perseverare nel bene o raccontarci che la vita è una lotta e va affrontata con coraggio.
Sì sono mute le panchine, ma parlano e perciò capisco che qualche volta possano anche inquietare, tanto che egoisticamente, e in contrasto con quanto ho testé consigliato, ci si vorrebbe girare dall’altra parte per non essere coinvolti e quasi plagiati o addirittura “infettati” da tutto il loro passato che può essere sì di bene e di gioie, di promesse mantenute e di glorie avverate, ma anche di sconfitte e di trame perverse.
In ogni caso fanno parte del tempo che va e che non si sottrae alla sua trasformazione in verità storica, perché mentre gli uomini nascono e muoiono, esse, nella maggior parte, rimangono – ignorate testimoni – ad aggiungere note su note ad ogni transitare, comprese quelle delle nostre eventuali fragilità. E a proposito di fragilità e di confessionale, quale amico più sincero che offra tanta discrezione, anzi fedeltà, ai segreti implicitamente confidati e sia pure consistenti solo in delle delusioni o stanchezze?
Rifacendomi ancora al “vissuto quotidiano” e ai sentimenti appena citati, quelli cioè a cui muove una panchina vuota – amore e inquietudine –, mi piace ora proporre all’immaginazione del lettore una piazza o meglio il viale o lo slargo di un giardino pubblico dove sono collocate parecchie panchine.
Un vero e proprio studio antropologico si potrebbe fare, in quanto aggiungendo alle soste rappresentative della vita sociale a largo raggio il ribaltamento scenografico della vita familiare, ovverosia trattando ogni panchina “occupata”come fosse anche l’interno di un’abitazione, si avrebbe la dimensione oggettiva della realtà esistenziale degli “occupanti”, dei vari tipi di menage o, andando più nello specifico, dei vari momenti d’incontro interpersonale.
La giovane madre che gioiosamente porta i bambini al parco o tutta la famiglia riunita per un pranzo a sacco; un gruppo di amiche che al pari del salotto di casa si scambiano qui le loro confidenze e pareri; gli anziani genitori che discutono fra di loro sul comportamento dei reciproci figli; la giovane coppia che litiga portando a galla la necessità di un divorzio; nonni che nostalgicamente raccontano ai nipotini le loro esperienze giovanili; donne frivole che parlano di moda o di chirurgia estetica e donne meno frivole che, lavorando a maglia, vicendevolmente si scambiano ricette della propria cucina o antichi rimedi per procacciarsi la buona salute.
Insomma ho voluto immettere visivamente il lettore in tutto questo più o meno festoso bailamme per potere meglio far risaltare il concetto di “panchina vuota” nell’immaginifico delle abitazioni e di riflesso della vita privata di ognuno di noi: non l’allegrezza ma la malinconia, non la solitudine ma il deserto, non la vita ma la morte, e questo quando il vivere da soli non è dovuto a una scelta da parte di una persona giovane ma condizione coatta vissuta da un uomo anziano che ha perduto ogni affetto.
A questi uomini io penso al mattino quando, a conclusione del mio trekking, mi fermo nel verde piazzale della “Grottella” [1] per fare qualche esercizio appoggiato alla spalliera di una panchina vuota. A costoro, penso, e a quanti su quella panchina si sono nel tempo seduti portando con sé il dolore di uomini crocifissi o la sofferenza con la quale, da cireneo, hanno contribuito a portare la croce altrui.
E non sembri ridicolo a nessuno se congedandomi, prima di salire in macchina per tornarmene a casa, metaforicamente trasferisco sulla spalla di tutte queste creature la manata di saluto che affettuosamente batto sulla spalliera di quella vuota panchina. Una pacca onesta e sincera che, di rimando, mi piacerebbe venisse da qualcuno data idealmente a me come a un uomo senza volto e senza storia, come a un uomo simbolo di tutti gli anziani a cui la morte ha tolto il bene terreno più prezioso: l’amore della propria compagna.
[1]
Santuario Santa Maria della Grottella, situato fuori dell’abitato di Copertino.
(Le immagini qui rappresentate sono prese in prestito da Internet)
Zattera per anime smarrite la panchina
postazione per guardare il cielo nella notte
piattaforma per gambe malferme.
GRAZIE è UN BELLISSIMO POST
W.V.
Meditazioni poetiche e autentiche; grazie Nino, davvero un bel regalo!
Veramente poetiche le interpretazione di Wilma Vedruccio!
“Postazione per guardare il cielo nella notte” è addirittura un’inquadratura dalla doppia valenza interpretativa, perché se da una parte la notte è quel fenomeno cosmico, reale, veritiero,con la possibilità di un cielo stellato, lunare o comunque arcano, per cui sempre favoloso da essere ammirato con le membra distese su una panchina (visione stupenda dell’orizzontale alla ricerca del verticale), dall’altra, la notte, può simbolicamente rappresentare un momento buio dell’esistenza umana, per cui nel guardare il cielo da una panchina c’è sempre la ricerca di una verticalità, pur se soggettiva e di varia natura, raggiungibile questa volta vivendo un sogno, una speranza, comunque attraverso l’attesa di un evento positivo che annunci la luce.
Per cui grazie a Wilma Vedruccio e grazie a te, Paolo, nel cui lusinghiero giudizio so che c’è pure tanto affetto.
Grazie per tanta attenzione! non avevo pensato a tutto ciò nel breve tempo di un commento, c’era solo una…confluenza di…come dire…
simpatia verso l’argomento oggetto di scrittura.
Sa tutto di tutti e non tradisce mai.