di Rocco Boccadamo
E’ l’ultimo d’agosto e sono settantatrè gli anni di un’amica lontana, incontrata e conosciuta, su monti che in certo qual modo mi mancano, una quarantina di calendari fa.
Il suo aspetto, allora, era un po’ diverso, ma anche oggi sono evidenti i tratti di una bella donna. Auguri, C.
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In tema di bellezza, questa volta riferita alla natura, qui c’è Castro, verosimilmente la più fulgida perla della splendida penisola salentina. Chi non la conosce, la ammira e l’apprezza?
Solo a immergersi nelle acque della sua rada si prova una sensazione paradisiaca, così come il semplice sguardo ai suoi tesori artistici e storici riempie e inebria gli occhi, la mente e il cuore.
E pensare che, appena mezzo secolo addietro, Castro era un nome quasi sconosciuto ai più, correva prevalentemente l’accezione dialettale di Casciu, piccola frazione con una marina raggiungibile a fatica, animata da alcune centinaia di poveri pescatori, i quali sfidavano il mare a mezzo di spartani gozzi di legno a remi, in gergo schifi, solcando la distesa liquida, quando calma, quando mossa o agitata, unicamente grazie alla forza delle braccia e alla spinta delle spalle, che, per diretta conseguenza, talora si facevano ricurve.
Non esistevano motori, né entrobordo, né, tanto meno, fuoribordo. Eppure, quelle scorze di noci strumenti di duro lavoro, rispecchiavano, in fondo, una vasta flottiglia d’umanità, di comune palpito nel senso di spontanea solidarietà, in occasione di particolari bisogni.
Gli stessi abitanti erano comunemente appellati casciari, non castrioti. A conferma di tale riferimento, nella mia Marittima c’era un falegname conosciuto e individuato come Mesciu Pippi ‘u casciaru, giacché sua madre era originaria, giustappunto, di Casciu o Castro che dir si voglia.
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Fra giugno e luglio scorsi, ho trovato la spinta e il piacere di ritagliarmi, fra l’altro, un certo monte d’ore mattutine, appena dopo il sorgere del sole, per ripulire di erbacce e germogli inutili vari un piccolo fondo denominato “Marina ‘u tinente”, dove vanno crescendo un centinaio di giovani ulivi da poco messi a dimora: una fatica affrontata, per gradi, ben volentieri, ripagata dal piacere del diretto e inusitato contatto, senza il minimo rumore o disturbo d’intorno, con gli elementi naturali, compreso, ovviamente, il mare disteso dirimpetto.
Detto fondo si colloca su una lunghezza di circa duecento metri, con un pendio del 23 – 24%; già a metà e assai maggiormente nel punto più alto, è dato di godere di una veduta panoramica mozzafiato sino al Capo di S. Maria di Leuca.
Tant’è che, ieri, all’imbrunire, mentre, dalla marina in discorso, mi accingevo a far ritorno a casa con la motoretta, sono stato casualmente raggiunto da due amici e compaesani, Pippi M. e Vitale N., che stavano, a loro volta, concludendo una passeggiata, un po’ in macchina e un po’ a piedi, nei paraggi.
Quando ho richiamato l’attenzione dei predetti sull’eccezionale colpo d’occhio, l’osservazione immediata di Pippi è stata: “Fantastico, si ha l’idea dell’infinito”. Non c’è che dire, una bella chiosa di fine giornata.
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Anche se mancano ancora tre settimane al suo termine, faccio di buon grado un consuntivo su questa stagione estiva. Personalmente, mi viene di conferirle un giudizio del tutto positivo, i gradi eccessivi di temperatura sono stati, infatti, controbilanciati da un’aria costantemente asciutta, di giorno e di notte, il mattino e la sera: pur dormendo con le finestre, e le serrande, spalancate, al risveglio si è avvertito sempre un senso di benessere fisico, l’umidità è stata un’emerita sconosciuta.
E poi, dagli ideali palchi dischiusi fra il letto del riposo e il blu scuro della notte, si è avuto l’eccezionale privilegio della compagnia, man mano divenuta confidenza, con il mondo misterioso di lassù, si sono andati innescando dialoghi con le moltitudini, non più anonime, di puntini scintillanti e con il faccione della luna, in ogni fase della sua presenza.
Indubbiamente, un’estate da ricordare.