di Armando Polito
1) Ci tene fili si fazza la naca! (Chi ha figli si faccia la culla!).
2) Lu piccìnnu ti la naca nnu ggiùrnu ènchie1 e l’addhu sdiàca2(Il bambino della culla un giorno riempie e l’altro svuota).
3) El più del tempo stava, questa3, mbriaca/e non sapëa quel che se facea;/e molte volte sopra de la naca/con greve sonno spisso4 se adormea (La maggior parte del tempo stava, questa, ubriaca/e non sapeva quello che faceva;/e molte volte sopra alla culla/con pesante sonno profondo si addormentava).
Chi legge avrà già intuito che i primi due documenti sono due proverbi in dialetto neretino e che il primo è un invito ai genitori a far fronte direttamente (si fazza) alle loro responsabilità, il secondo è di interpretazione più problematica, perché potrebbe alludere al continuo, alternato aumentare di peso, ingrassare (ènchie) e diminuire, dimagrire (sdiàca) del bambino5, oppure dipingere un quadro di regolarità intestinale in tempi in cui Activia e il suo biphidus actiregularis non esistevano e, non esistendo nemmeno la tv, non rompevano, come fanno oggi, le scatole senza, peraltro, garantire nei fatti ciò che a parole e ad immagini promettono…
È altrettanto evidente che il terzo documento non è in dialetto neretino; infatti si tratta di quattro endecasillabi (vv. 249-252) tratti dal poema Lo Balzino scritto nella seconda metà del XV° secolo dal neretino Rogeri de Pacientia6. Il poema, contenuto nel manoscritto F24 della Biblioteca di Perugia, fu studiato dal Croce, ma la prima pubblicazione integrale del testo, a cura di Mario Marti, è relativamente recente7. Quanto alla lingua usata, si tratta di uno dei primi tentativi salentini dell’uso del volgare con intendimenti letterari ed essa non si discosta da quella solita degli scrittori napoletani del secolo, non priva di forme dialettali, barbarismi, costrutti poco lineari che sovente danno vita ad un’espressione piuttosto intricata del pensiero.
Chi, però, pensa, sulla scorta dei proverbi probabilmente più antichi de Lo Balzino, che naca nei quattro versi riportati sia la forma dialettale neretina più evidente, incorre in un abbaglio. La voce, infatti, risulta diffusa praticamente in tutta l’Italia meridionale, dalla Puglia alla Basilicata8,dalla Calabria9 alla Sicilia10, e non solo11.
Naca era il nome di un particolare tipo di culla (foto di testa), molto diffuso in passato in quei territori, originariamente costituita da una pelle di montone (poi sostituita da un panno grossolano) montata su un telaio di legno, a formare un giaciglio incavato; il tutto sospeso con corde sul letto matrimoniale; nei modelli più sofisticati (!) un’ulteriore corda più sottile e penzolante consentiva alla madre di dondolarla comodamente stando a letto o mentre sfaccendava nei paraggi. Già nel brano di Rogeri de Pacientia surriportato naca ha assunto il significato di culla normale, non appesa, non solo perché il neonato in questione è di sangue blu (nelle case patrizie lo spazio e la servitù non mancavano…) ma anche perché altrimenti non si giustificherebbe sopra della naca. Bisognerà aspettare cinque secoli abbondanti perché questa evoluzione coinvolga definitivamente il popolo (naca posata sull’aia nel primo brano della nota 17), il consumismo faccia la fortuna della Chicco e di altre aziende simili e questo contenitore, umile all’origine (tutt’al più abbellito da qualche frangia ricamata), fruisca dei più impensabili accessori, tv e navigatore satellitari compresi…
La voce è di origine greca12; non a caso nel greco arcaico e classico nake11 designa proprio la pelle di pecora o di capra, il cui particolare utilizzo ha determinato il passaggio semantico a quello di culla nonchè, probabilmente, a quello di grosso ramo che si distende orizzontalmente, assunto dalla stessa voce in parecchi centri del Salento (Nardò inclusa; a Maruggio, nel Tarantino, naca–naca è l’altalena)13. Vanno perciò respinte alcune etimologie piuttosto datate: ”Dall’ebraico nachat quies, o dal greco nokar dormitio”14; “Dal greco nokar dormizione. Ovvero può essere metatesi di cuna”15.
Va detto pure che la voce ha subito altri slittamenti semantici, dal momento che nel dialetto siciliano assume pure il significato di “letto di fiume”15, “Acqua ritenuta nei fiumi, che fa gorgo”14, oltre ad indicare la parte di un particolare tipo di rete dove il pesce si posa dopo essere entrato.16
Il suo destino sembra piuttosto roseo e in questo si differenzia rispetto ad altre voci che, legate al nome di un oggetto obsoleto, sono scomparse. Naca, invece, ha conservato la sua vitalità, come ai tempi di Rogeri de Pacientia, in testi con velleità letterarie17.
Gli slittamenti semantici, però, sono pericolosi perché possono autorizzare supposizioni fasulle. In aeronatica è detto naca (o cappottatura naca) l’involucro che contiene il motore e nell’industria automobilistica hanno lo stesso nome le prese d’aria presenti sul cofano di automobili sportive.
immagine tratta da http://www.rcaeromodellismo.it/main/2011/mitsubishi-a6m-zero-sen-build-log/
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Ferrari_F40_in_IMS_parking_lot.jpg
Soprattutto nel primo caso gli agganci con la culla sembrano plausibili, ma rivelano tutta la loro inconsistenza quando si scopre che NACA18 è l’acronimo di National Advisory Committee for Aeronautics.
E, per chiudere questa parentesi di follia etimologica, se l’amaca fosse la figlia della naca, di nome e di fatto? In fondo, dirà qualcuno per quanto riguarda il fatto, i due oggetti somigliano l’uno all’altro in modo impressionante; e per il nome basta immaginare questa trafila: la naca>*l’anaca (agglutinazione della a dell’articolo)>l’amaca (passaggio da n ad m che sempre nasale è).
Sarebbe solo un gioco, per quanto suggestivo, perché la cronologia e la storia sono impietose: amaca deriva dallo spagnolo hamaca, trascrizione di voce caribica. A meno che non si voglia supporre che pure i Greci evasori fiscali di più di duemila anni fa trascorressero in quella parte del mondo le loro vacanze o, addirittura, vi avessero fondato colonie.
Eppure c’è chi è andato sul posto ad indagare…
Per la storia: la risposta della ragazza fu entusiasticamente affermativa e sul seguito un gentiluomo nulla può e deve dire, anche se qualche maligno calunniatore e invidioso va vociferando che lei disse di sì perché, stranamente, conosceva l’analisi logica e che grazie alla successiva profonda delusione evitò pure di recriminare se non sarebbe stato meglio interpretare terra terra le parole di quell’uomo venuto da lontano…
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1 Presente indicativo di inchìre, come l’italiano empire, dal latino implère.
2 Presente indicativo di sdiacàre dal latino vacàre con aggiunta in testa di ben due preposizioni (ex e de); trafila: *exdevacàre>sdivacàre (variante del Brindisino e del Tarantìno)>sdiacàre (normale sincope di –v– intervocalica). Per il Rohlfs la voce è da *exdevacuàre; ora, essendo evidente che i due verbi vacàre (=esser vuoto) e vacuàre(=svuotare) si collegano alla stessa radice e l’unica differenza è data dal valore intransitivo del primo e transitivo del secondo, *exdevacuàre, se fosse il padre di sdiacàre dovrebbe giustificare la perdita della sua –u– da parte del figlio, cosa che non ha bisogno di fare vacàre.
3 Si tratta di una balia.
4 Non credo che corrisponda a spesso (avverbio di tempo) perché poco prima leggo molte volte.
5 È questa l’interpretazione di Antonio Garrisi in Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990, voce naca.
6 Così è scritto nel manoscritto. Il nome, poi, è stato italianizzato in Ruggero Pazienza, forma adottata per la via a lui intitolata.
7 Ruggero Pazienza, Lo Balzino, Milella, Lecce, 1977.
8 Ernesto De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 4a edizione, 2004, pag. 44: “Quanne nascett’ie mamma non c’era,/ era sciute a lavè l’ambassature./ La naca ca m’aveva nachè/ era de ferre e non se tuculeva,/ lu prete ca m’aveva d’abbatescì/ sapeva lesce e non sapeva scrive (Quando io nacqui mamma non c’era, era andata a lavare le fasce. La culla che mi doveva cullare era di ferro e non dondolava, il prete che mi doveva battezzare sapeva leggere e non sapeva scrivere)”. Si tratta di un canto di autocommiserazione che trova il suo parallelo metricamente più perfetto e musicale nel neretino “Ti l’ora ca nascii fuèi sbinturàta,/ti tandu parse la sbintùra mia:/mi purtàra alla chièsia a battizzàre/e morse la mammàna pi lla ia/, si pèrsira li chiài ti l’uègghiu santu/e puru quèddhe ti la sacristìa (Dall’ora che nacqui fui sventurata, da allora parve la sventura mia: mi portarono alla chiesa a battezzare e morì la levatrice per la via, si persero le chiavi dell’olio santo e pure quelle della sacrestia). Tuculeva ha il suo corrispondente neretino in cutulàre=muovere (c’è anche il derivato scutulàre=bacchiare) rispetto al quale presenta metatesi cutu->tucu (da notare la conservazione del vocalismo). Quanto all’etimo di cutulàre il Rohlfs si limita ad invitare ad un confronto con il calabrese cutulàre=abbacchiare); Antonio Garrisi nel Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990 al lemma cutulare non propone alcun etimo; Giuseppe Presicce nel suo blog Il dialetto salentino come si parla a Scorrano (http://www.dialettosalentino.it/a_1.html) al lemma cotulare (http://www.dialettosalentino.it/cotulare.html): “da scotulare (bacchiare, agitare fortemente, scrollare), con l’eliminazione del prefisso s-“. A scotulare: “dal greco σκυταλόω (bastonare), a sua volta derivato da σκύταλον (bastone, randello, mazza)”. Sull’etimo proposto le suggestioni semantiche (ispirate probabilmente dal confronto con la voce calabrese cui invitava il Rholfs) hanno finito per delineare un percorso fuorviante per quanto segue: σ-, che nella parola greca non è assolutamente prefisso ma parte integrante della radice, nella parola dialettale viene inteso come tale e, addirittura lo si fa cadere per spiegare cotulare, come se questo derivasse da scotulare e non viceversa; a parte questo non si capisce l’evoluzione fonetica da σκύταλον (leggi schiùtalon) a scutulare, cioè il passaggio da –α-(leggi –a– ad –u-. E allora? Io avrei non una ma tre proposte (quasi a conferma della “reticenza” del Rohlfs” ed a rimprovero della sicurezza con cui il Presicce avanza la sua proposta. La prima parte da un latino *cùtulum (=strumento per scuotere) dal classico quàtere (=scuotere) attraverso il suo composto excùtere, come, più direttamente, càpulum (=cappio) da càpere=prendere); e da *cùtulum si sarebbe formato cutulàre e da questo, con aggiunta di s– intensiva, scutulàre (=bacchiare), come dal citato càpulum il neretino scapulàre usato per gli umani assolutamente col significato di chiudere la giornata di lavoro (àggiu scapulatu=ho finito di lavorare) o riferito al bambino che compie i primi passi, per gli animali col complemento oggetto (scàpula li acche=libera le vacche). Insomma, se mi si chiedesse quale verbo dialettale sembra riassumere il concetto di libertà ma ha in sé anche il ricordo della sua, forse atavica, coartazione, nominerei proprio questo. Questa prima ipotesi appare plausibile ma c’è l’ombra della forma ricostruita *cùtulum. La seconda proposta metterebbe in campo cùtula che nel leccese indica il coccige. Alla lettera cùtula significa piccola coda, essendo diminutivo di cuta o cota (coda). A Nardò (che adotta la variante cota è in uso un altro diminutivo: cuteddha, che indica la nuca; insomma, così solo per orientarci, cùtula è vicina al culo, cuteddha alla testa … Dal significato base di muovere, dondolare la coda, si sarebbe passati a quello generico di muovere, dondolare (a Nardò il derivato cutulizzu designa la scossa del terremoto o, più modestanmente, il movimento fastidioso di uno che muove un tavolo o una sedia). Da segnalare, sempre da cùtula, il leccese cutullare=ancheggiare e cutulisciare, forma intensiva di cutulare. L’ultima proposta mette in campo le voci del grico cutulidzo, con riscontro nel neogreco κουτουλίζω (leggi cutulizo)=cozzare e cutulò (con riscontro nel neogreco κουτουλώ (leggi cutulò), col significato di muovere.
9 ‘A naca è il nome della processione che il venerdì santo si svolge a Catanzaro ed in altri centri calabresi, al cui centro c’è una culla su cui è adagiato il corpo di Gesù.
10 Solo qualche esempio, tratto da Giuseppe Pitrè, Canti popolari Siciliani, Pedone Lauriel, Palermo, 1871:
“Figghiu mio, figghiu d’amari:/ la naca ti cunzai p’aripusari./ E alavò” (Figlio mio, figlio da amare: la culla ti preparai per riposare. E alavò [con le varianti alavò, vovò, alaò, aò, oo, o viene considerata voce da cantilena atta a propiziare il sonno]); “E alavò, li galeri juncèru,/ e sunnu junti ddocu a lu molu;/ e purtaru sita trucchina/ p’arricamàriti la mantillina; sita trucchina, sita ‘ncarnata,/p’arricamàriti la naca (E alavò (E alavò [vedi citazione precedente], le galee giunsero e sono giunte dove c’è il molo; e portarono seta turchina per ricanarti la mantellina; seta turchina, seta color carne per ricamarti la culla. E alavò). Ancora per il Salento, in Giuseppe Campa, Ta pracalìmmata tos aftechò. Le «preghiere» dei poveri,Amaltea, Castrignano dei Greci, 2004, pag. 60: “Maria lavava/Giuseppe spandìa/ninnellu/chiangìa./Cittu ninnellu/vengu e te piju/te portu alla naca/e te fazzu durmì” (Maria faceva il bucato, Giuseppe lo stendeva, il Bambino piangeva. Zitto bambino, vengo e ti prendo, ti porto alla culla e ti faccio dormire).
11 Oggi è naka a Creta e nel Peloponneso e a naca si collega in tutta evidenza, in alcune regioni sarde, il verbo annaccàre=dondolare, cullare.
12 Per il latino medioevale è attestato (Du Cange, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, Favre, Niort, 1883, pag. 565) un naca col significato di specie di nave, di origine germanica; nello stesso glossario si dice che secondo alcuni la voce è dal greco naus=nave; quest’etimo è ancora meno convincente, per motivi fonologici, dell’ipotesi, che pure mi potrebbe venire in mente, dati gli strettissimi rapporti semantici (la culla, in fondo, somiglia a una piccola nave), secondo la quale il latino medioevale naca non sarebbe altro che il greco nake.
13 Non mi pare azzardato cogliere nella metafora un sottile lirismo panico in cui non è estraneo, fra l’altro, il parallelismo:albero-ramo (frutto)/madre-culla (figlio).
14 Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino, Reale Stamperia, Palermo, 1785.
15 Antonino Traina, Nuovo vocabolario siciliano-italiano, Pedone Lauriel, Palermo, 1868. Come si spiega in naca rispetto a nokar il passaggio –o->-a-? Quanto a naca per metatesi da cuna (in latino significa culla) faccio presente che la metatesi non altera il vocalismo nemmeno in voci più estese: sacàra (un serpente innocuo) è da casàra (per la sua abitudine ad entrare nelle case), tarìce (ravanello) è da *ratìce, deformazione di radice, per la quale il neretino usa il derivato tirricàta [(*ratìce>tarìce>*taricata>tarricàta (variante di Manduria e Sava)>terricàta (variante di Castro, Ruffano, Taurisano, Vernole e Vitigliano, in cui il raddoppiamento della r e il passaggio –a->-e– potrebbero essere frutto dell’influsso di terra)>tirricàta], etc. etc.; vedi inoltre quanto detto a proposito di cutulàre in nota 8.
16 Antonino Buttitta, Giuseppe Aiello, Mario Giacomarra ed altri, Le forme del lavoro: mestieri tradizionali in Sicilia, Flaccovio, Palermo, 1988, pag.182: “La naca è la parte della rete unni va rriseri u pisci”.
17 Luca Asprea, Il previtocciolo, Pellegrini, Cosenza, 2003, pagg. 34-35: “Io avevo sedici mesi: ero adagiato, sazio di mammelle e felice, nella naca posata sull’aia. I genitori non perdevano mai di vista la naca, perché c’era pericolo che i serpi, attirati dall’odor del latte venissero e mi entrassero in bocca.”; “Le corna che il babbo inchiodò lì, sull’ulivo…non ti ricordi?…quando io ero dentro la naca…”.
Edoardo Cacciatore, Non naca pendolo, in Tutte le poesie, Manni, San Cesario di Lecce, 2003, pag, 589: “La mente oscillante non è una naca/che culla illusioni e ne tratta la resa…”. “
18 Scritto anche in minuscolo, come se fosse un nome comune, cosa successa pure ad altri acronimi come laser, radar, etc. etc. (nel nostro caso, però, si tratta del nome di un ente e sarebbe come scrivere fiat per FIAT); un esempio: Giorgio Galli, Enrico Mattei: petrolio e complotto italiano, Baldini CastoldI Dalai, Milano, 2005, pag. 350: “…uno dei tecnici SNAM incaricato dell’esame dei motori gli disse che nel motore aveva rinvenuto un cacciavite tra il motore e la naca, che sarebbe l’involucro che copre il motore stesso.”
“…Va detto pure che la voce ha subito altri slittamenti semantici, dal momento che nel dialetto siciliano assume pure il significato di “letto di fiume”15, “Acqua ritenuta nei fiumi, che fa gorgo”…
Ed allora, caro Armando, non credi che il toponimo antichissimo Naca utilizzato per denominare il territorio tra Nardò, Leverano e Copertino, non sia proprio il “letto” del torrente Asso, le cui acque qui si raccolgono prima di riversarsi nella vora delle Colucce?
Lo credo proprio, ma credo pure che è la più bella integrazione (vorrei che non fosse l’unica, e lo dico non per eccessiva stima di me stesso e di te…) al mio modesto contributo.
e allora ti voglio ancora sfidare…
Nelle immediate vicinanze (se ricordo bene) della contrada Naca esistono anche quelle di “Nelu” e “Ngonga” (italianizzato in Gonga) . Si rifanno sempre all’drografia? Se il primo termine lo ritieni veritiero, perchè non potrebbero esserlo anche gli altri due, che immagino come trasposizione dialettale di “Nilo” e “Conca”? Il torrente Asso di oggi, ridotto ad un torrentello che diventa minaccioso solo in coincidenza di grandi piogge, arriva fino a Nardò dopo aver attraversato il basso Salento. Chi ci dice che molti secoli addietro non avesse un letto più ampio e le piogge fossero molto più abbondanti che ora? Ti rammento anche, poco fuori da Nardò, sempre a conclusione dell’Asso, la contrada “Patuli”, che mi insegni sta per “Paludi”, confinante con la contrada “Ureta”, in cui si raccoglievano le acque della città di Nardò
Proprio così: tutti idronimi (direttamente Nelu e Patuli, indirettamente Ngonga); Ureta, invece, com’è noto, è forma aggettivale da Oria. La tua osservazione mi offre l’occasione di ricordare che proprio quest’abbondanza di idronimi nel nostro territorio ha fatto ritenere a tutti con ragionevole certezza che pure Arneo lo sia; ma, come ebbi modo di dire in un altro post, la forma più antica attestata è Derneo. Chiedo scusa per il basso espediente usato per incrementare il numero di letture di questo mio post che ha avuto scarsa fortuna, a differenza del famigerato “Tutta colpa del verbo latino calere” che oggi ho visto riaffiorare come un incubo, dopo una stasi durata poche, troppo poche, settimane, tra quelli più letti…
e il verbo nnacare?
infatti! in che senso lo utilizzate?
A Nardò non esiste. Se è il sinonimo dialettale di cullare, dondolare, la risposta è nella nota n. 8, altrimenti gradirei che venisse comunicato il suo significato.
Terribile dubbio. Ma a Nardò come si indica il verbo cullare? Forse nannarisciare?
Credo proprio nannarisciare, naturalmente da nanna.
Visto che l’Armando ha detto quasi tutto e la redazione mi ha lasciato pochissimo spazio permettetemi di intervenire brevemente per ricordare che il cullare la naca a Gallipoli ( e non solo ) si dice “nazzacare” per l’influsso dorico (alfa dorica) mentre nel tarantino e brindisino ( vedi Il Maestro Rohlf. che riporta anche il citato nannarisciare) è diffuso il termine “nazzicare”.
Nazzicare, come suggerisce la fonetica, secondo me non ha niente a che fare con naca ma deriva da in+l’obsoleto azzicare=muovere minimamente, molto probabilmente deformazione del latino actitàre, frequentativo di àgere=muovere; e nel gallipolino il pasaggio i>a non sarebbe per influsso dorico (essendo latina la voce di partenza e comportando, oltretutto, il dorismo il passaggio ad a non del suono i ma del suono e); supporrebbe, invece, un passaggio intermedio i>e, da cui poi il passaggio finale e>a tipicamente gallipolino, come in sargente rispetto a sergente e (mi duole dirlo…)in Nardò rispetto all’originario Neretum.
Qualcuno ha proposto per nazzicare un lat. *nacicare, intensivo o iterativo di *nacare, derivato da un lat. regionale *naca, a sua volta dal gr. dorico nàka per l’attico nàke. Voglio aggiungere che il termine naca è esteso in quasi tutta la Puglia (fino a Foggia), mentre sul Gargano si adopera navìcule.
Qualcuno ha proposto per il salentino nazzicare un lat. *nacicare, intensivo o iterarivo di un *nacare derivato da un lat. regionale *naca, a sua volta dal greco dorico nàka (attico nàke) ‘vello di pecora’. Aggiungo anche il termine naca giunge, in Puglia, sino al Tavoliere: a Foggia si dice ‘a nàche, mentre sul Gargano si adopera ‘a navìcule.
‘nacare viene utilizzato nel senso di “fare una curva o una depressione verso il basso a mo di conca” per cui nella nnacatura può trattenersi l’acqua. Può ‘nacare un telone posto sopra le file di tabacco per la pioggia, col rischio che formi un ristagno pesante d’acqua; può ‘nacare un bastone per il troppo peso, può ‘nacare una strada nel punto in cui l’acqua ristagna e ‘conca. richiama sempre una concavità verso l’alto.
Ora è chiaro che nnacàre è da in+naca. Il proposto *nacicare come etimo di nazzicare mi lascia, invece, perplesso in quanto la doppia z nasce da un’originaria doppia c (stracciare>strazzare) seguita da vocale o da h e vocale (bracchium>braccio>razzu) oppure da doppia z (tozzo>stuezzu). Credo che anche fazzu derivi più dall’italiano faccio che dal latino facio. Grazie, comunque, a tutti.
Concordo che *nacicare non porti a nazzicare; per completezza, anche -cj- dà l’esito -zz- come ad es. *jacium > jazzu ‘giaciglio’, aciarium > azzaru ‘acciaio’, ecc. Mentre, invece, i prestiti dall’italiano che presentano -cc(i)- conservano la palatale: es. gallinaccio > callinàcciu ‘tacchino’, goccia > còccia ‘colpo aploplettico’, ecc.
la naca è anche il ramo di un albero …
Mi sembrava di averlo scritto e, rileggendo il post, ne ho avuto conferma…
Scusatemi se m’intrometto nella discussione. Io sono siciliano, ed in Sicilia la naca è proprio quella della foto in testa all’articolo. Annacàrisi da noi vuol dire dondolarsi, ed anche darsi una mossa. Anche da noi la naca è la parte profonda di uno stagno o pozza d’acqua. Ho trovato questo vostro bell’articolo, molto esaustivo, perché alla ricerca di una foto che documentasse la naca. Al riguardo ho scritto la poesia che allego. Grazie per l’ospitalità
Federico Messana
LA NACA L’AMACA
(Il dondolo-L’amaca) (Il dondolo-L’amaca)
E sbatti di ccà, e sbatti di ddà, E sbatte di qua, e sbatte di là,
sta naca ca vola ‘mpazziri lu fa questa naca che vola impazzire lo fa
ddu piccirìddu ca sùannu nun voli quel piccolino che sonno non vuole
ma la so’ mamma cci teni di cori. ma la sua mamma ci tiene di cuore.
Tirannu la corda la naca camina Tirando la corda la naca cammina
lassànnula iri ritorna nni prima, lasciandola andare ritorna come prima,
tirannula ancora ti pari vulari tirandola ancora ti pare volare
ormai è un piaciri vidìrla annacari. ormai è un piacere vederla dondolare.
La mamma canta la ninna e la nanna La mamma canta la ninna e la nanna
pi dari sùannu a dda picciula arma, per dare sonno alla piccola anima
ma ddu carusìaddu si senti annacatu ma quel bambino si sente dondolato
e ridi di cori, cuntentu e priatu. e ride di cuore, contento e beato.
Dda musca ca vola vicinu a la naca La mosca che vola vicino alla naca
‘ncuièta e distrai l’armuzza biata, disturba e distrae l’animella beata,
lu tocca e tiddìca facìannu dispìatto lo tocca e solletica facendo dispetto
pùa vola e firrìa vicinu a lu lìattu. poi vola e gira vicino a quel letto.
Cuntinua a tirari la corda la mamma Continua a tirare la corda la mamma
e dici cuntenta cantannu la nanna: e dice contenta cantando la nanna:
“Addolalò, addolaledda, “Addollalò, addolaledda,
lu lupu si mancià la picuredda!”. il lupo si mangiò la pecorella!”.
Lu piccirìddu già dormi e riposa Il piccolino già dorme e riposa
chiuiùti l’ùacchi assumiglia a ‘na rosa. chiusi gli occhi assomiglia a una rosa.
La mamma allura rallenta la cursa: La mamma allora rallenta la corsa:
ferma è la naca, ma chiddu già russa. ferma è la naca, ma quello già russa.
Nell’inserire il testo la traduzione in italiano di ogni riga si è attaccata a quella del dialetto. Allego solo la parte dialettale:
LA NACA
(Il dondolo-L’amaca)
E sbatti di ccà, e sbatti di ddà,
sta naca ca vola ‘mpazziri lu fa
ddu piccirìddu ca sùannu nun voli
ma la so’ mamma cci teni di cori.
Tirannu la corda la naca camina
lassànnula iri ritorna nni prima,
tirannula ancora ti pari vulari
ormai è un piaciri vidìrla annacari.
La mamma canta la ninna e la nanna
pi dari sùannu a dda picciula arma,
ma ddu carusìaddu si senti annacatu
e ridi di cori, cuntentu e priatu.
Dda musca ca vola vicinu a la naca
‘ncuièta e distrai l’armuzza biata,
lu tocca e tiddìca facìannu dispìatto
pùa vola e firrìa vicinu a lu lìattu.
Cuntinua a tirari la corda la mamma
e dici cuntenta cantannu la nanna:
“Addolalò, addolaledda,
lu lupu si mancià la picuredda!”.
Lu piccirìddu già dormi e riposa
chiuiùti l’ùacchi assumiglia a ‘na rosa.
La mamma allura rallenta la cursa:
ferma è la naca, ma chiddu già russa.
Grazie per il bel contributo, anche se moderno. Sarebbe bello se, seguendo il suo esempio, anche da altre parti d’Italia e non giungessero integrazioni, magari antiche, sul tema.