di Maurizio Nocera
Leggendo il libro curato da Gianni Ferraris, che narra le vicende di un personaggio finora poco noto nel Salento – Salvatore Napoli Leone, di Nardò – uomo di indubbie capacità e inventiva, dati i tempi e le situazioni di partenza, mi sono chiesto da quale substrato economico-sociale provenisse la sua straordinaria vita.
Parto dalla constatazione di considerare tardivo l’avvio del processo produttivo industriale nel Salento leccese, giunto qui in un momento in cui era già avviato il livello di sviluppo in altre aree della penisola italica. L’antica Terra d’Otranto era lontana provincia del regno di Napoli, la cui capitale, appunto Napoli, come molti dati confermano, già a metà Settecento aveva una sia pur modesta realtà produttiva di tipo industriale. Nella stessa epoca, qui da noi vigeva ancora uno status medievale, con tutti i suoi nessi e connessi. Non esisteva la produzione industriale e le classi sociali, fondamentalmente, si riducevano a due: i nobili feudatari e i servi della gleba. Gli stessi artigiani (calzolai, ferrai, panettieri, ecc.), che pure c’erano sia pure in infima minoranza, per lo più erano vecchi ex braccianti che avevano smesso, spesso per malattia, di lavorare la terra, e per non morire di fame, svolgevano quei nuovi lavori. Le attività produttive di base dell’economia salentina ruotavano intorno alla produzione dell’olio, ricavato dal duro lavoro dei frantoiani negli ipogei, olio di cui disponeva soltanto il feudatario come meglio credeva attraverso, ad esempio, l’istituto delle “decime”, cioè la pratica di esigere coercitivamente delle quote parti. Alla fine del processo produttivo era poi lo stesso feudatario ad amministrare il resto dell’economia, la finanza e la giustizia attraverso suoi accoliti.
Alla fine del Settecento, il territorio che noi oggi denominiamo Salento era una landa di arretratezza e povertà generale, tanto che Michelangelo Schipa, Rosario Villari, Michele Galanti e D. Winspeare, storici ed economisti di fama europea, lo hanno descritto come un’area macchiosa, acquitrinosa, malsana e scarsa di attività produttive. Le poche aree agricole, quelle delle pianure parzialmente bonificate, erano coltivate a olivo, cotone, tabacco e, qua e là, ad agli e cipolle. C’era pure la pastorizia con l’annessa attività produttiva dei formaggi, ma questa bastava solo a soddisfare un’infima parte della popolazione. La lana prodotta non era raffinata e a mala pena serviva per confezionare i rudi indumenti dei contadini. A Gallipoli si produceva pure il bisso, una sorta di filo bianchissimo prodotto dai grandi molluschi, all’epoca abbondanti nell’Ionio, e da esso si ricavava la mussolina, una stoffa per mani delicate. Gli stessi storici ed economisti coevi affermano che solo il porto di Gallipoli poteva considerarsi come una situazione produttiva attiva in quanto c’era in esso una grande affluenza di natanti per il trasporto dell’olio, delle botti e parzialmente anche del cotone.
Tutto questo ci fa capire che alla fine del Settecento e per buona parte dell’Ottocento, nella Terra d’Otranto non esistevano attività manifatturiere; il Galati, nella sua Nuova descrizione storica e geografica della Sicilia (Napoli 1788) scrive che le stesse attività ruotanti attorno alla produzione salentina del cotone si riducevano al lavoro svolto dalle donne in ambito unicamente familiare. Aggiunge poi che «in Galatone e Nardò si fabbricavano ancora dalle donne coperte da letto […] con grande finezza e maestria».
Con l’Unità d’Italia (1861) la situazione manifatturiera di Terra d’Otranto non migliorò, anzi, per molti versi, stagnò per non dire che peggiorò, in quanto la calata al Sud dell’impostazione produttiva sabaudo-piemontese soffocò sul nascere quanto di buono da questo punto di vista era già stato avviato. Penso ad esempio all’avvio di una timidissima razionalizzazione delle colture dell’olivo, delle vite, del cotone, del lino, della lana, della canapa, del tabacco e della ceramica, che già avevano registrato un primo aumento delle esportazioni.
A partire dal 1870 si registrò pure un modesto ammodernamento dell’industria olearia che, da ipogea divenne solare, con l’olio che comunque rimase per quattro quinti di tipo lampante. Il primo tentativo di ammodernamento dell’apparato produttivo salentino si registrò nel settore dell’industria vitivinicola, i cui vini, a forte gradazione, cominciarono ad essere esportati al Nord per il taglio di vini leggeri di quelle zone. Comunque, di fatto la situazione di arretratezza rimase fino a quasi subito dopo il secondo dopoguerra (1945) quando, con la generalizzazione della meccanizzazione dell’agricoltura, prima al Nord poi al Sud, anche nel Salento cominciarono a vedersi vecchie e antiquate masserie evolversi in nuove forme di capitalismo agrario con le tipiche figure sociali ad esso collegate. Sarà in particolare con l’industrializzazione della foglia di tabacco che il Salento comincerà a conoscere le prime forme produttive industrializzate.
Si può comprensibilmente dire che a partire dagli anni 1950-70 il Salento comincia ad avere i suoi primi stabili impianti artigianali e industriali, in particolare nei settori che da sempre erano stati trainanti in questo territorio, quelli dell’olivicoltura, viticoltura, tabacchicoltura, ceramica e, ad un certo punto anche quello del montaggio di macchine industriali (macchine rivolgimento terra, ruspe, ecc.).
Ovviamente il nuovo tipo di sviluppo industriale non nacque in un deserto, perché proprio qui, in Terra d’Otranto, a partire e per tutto il Novecento c’è stato chi ha operato in una prospettiva di sviluppo industriale, fra questi, grandi meriti vanno a Salvatore Napoli Leone, di Nardò, personaggio eclettico e fortemente operoso nel corso dell’intero secolo, che si interessò di non pochi aspetti economico-strutturali legati allo sviluppo produttivo.
Leggendo il libro, viene da chiedersi: ma quante imprese ha inventato e avviato Salvatore Napoli Leone a Nardò e nella provincia di Lecce? Tante, soprattutto nel settore manifatturiero, in quello commerciale ed anche, in tempi assolutamente pioneristici, in quello pubblicitario.
Come dice il curatore del libro, Gianni Ferraris, buona parte dell’attività inventiva e industriosa di Napoli Leone la si evince da un vecchio dattiloscritto biografico, scritto dal calabrese Alfredo Pedullà Audino, che probabilmente non ha visto ancora la luce. In esso come pure in molte pagine tratte da un diario manoscritto dallo stesso Napoli Leone, i lettori di questo libro troveranno buona parte della storia del Neretino, in particolare troveranno un ampio apparato iconografico che dimostra quanto vasto sia stato l’operato di questo «uomo che era un vulcano in continua eruzione: chimico, esperto in cemento armato, industriale in più settori: inchiostri, cosmesi, pasticceria, torrefazione caffè (era suo il più noto Gran Bar Pasticceria di Nardò), coni gelati, editoria, tipografia, bibite, vini e liquori». Ma si dice pure che Salvatore Napoli sia stato poeta, scrittore (quando morì, nel 1980, stava scrivendo una sua autobiografia).
Fa impressione sapere che il Nostro abbia iniziato la sua attività di inventore di nuovi brevetti a partire dall’adolescenziale età di 13 anni e non sorprende la sua esibita religiosità e la sua profonda fede nel Cristianesimo, perché il Salento è stata la terra dove grandi e sconvolgenti furono i conflitti interreligiosi. Non dimentichiamo che è nell’antica Terra d’Otranto che si svolse l’unica guerra di aggressione all’Italia per motivi di espansionismo religioso, con gli Ottomani che invasero Otranto nel 1480. Per cui, la religiosità cristiana del Neretino è più che comprensibile.
Di tutti i brevetti e i prodotti (coni per gelati, caffè, liquori, vini, pasticceria, mobili per la scuola, farmacopea antimalarica, tinture, altro ancora) inventati da Salvatore Napoli Leone quello che maggiormente mi stupisce è la costruzione della Fabbrica di inchiostri e crema lucida “Atala”, fondata nel 1920. Si tratta di ben 87 tipi di inchiostri, noti e richiesti in tutta Italia per la loro buona fattura, fra cui il noto “Inchiostro ‘333’ – Tre usi – ‘Leone’”, di cui si interessò anche la rivista nazionale «Il Calligrafo» (v. Appendice quattro e cinque). Il successo del prodotto portò il suo inventore a scrivere una Relazione chimico scientifica sintetica sui prodotti Atala – Gli inchiostri per scrivere. Notizie utili che, a sua volta, fu molto lodata e premiata.
Certo, c’è da aggiungere che per Salvatore (Totò per gli amici) Napoli Leone non tutto e non sempre andò per il verso giusto, e anche per lui ci furono tempi brutti. Ad esempio, duri furono gli anni ’30, anni in cui fu costretto a contenere il suo bollente spirito inventivo e fermare le sue attività per una serie di rovesci economico-finanziari. Fu un tempo non breve quello e nel libro questo lo si comprende bene. Tuttavia Napoli Leone seppe riprendersi e trovare nuovi spunti per il suo operare. Chi oggi, qui nel Salento, per un attimo si mettesse a studiare seriamente la biografia e l’opera industriosa di questo personaggio, troverebbe sicuramente non pochi spunti per avviare una serie di attività che porterebbe questa terra ad un livello di sviluppo sicuramente più consono e più umanamente compatibile.
Con sorpresa e meraviglia osservo le immagini delle cartoline pubblicitarie, le copertine dei suoi libri e i suoi marchi, inseriti dal curatore nell’ampio corpus iconografico. Ad esempio, a p. 21 un’interessante cartolina pubblicitaria dei prodotti ‘Atala’; alle pp. 23 e 24 alcune foto d’archivio della fabbrica d’inchiostri, altre foto riguardanti la stessa fabbrica appaiono pubblicate in altre parti del libro; alle pp. 26-sgg. alcune foto pubblicitarie di astucci per inchiostri con loghi disegnati da Gino Gabrieli, seguono alcune foto di certificati sugli stessi inchiostri, ma molte sono anche le immagini di etichette per vini e sciroppi. Le copertine dei suoi libri: a p. 120, la copertina del libro Cose nosce con una bellissima vignetta (la danza della pizzica pizzica) disegnata con inchiostro ‘Atala’ dall’artista Presicce; alle pp. 186-187, altre riproduzioni di frontespizi di pubblicazioni stampate nella tipografia Leone, tra di esse, interessante quella dei Sonetti Salentini del suo amico e grande rivoluzionario repubblicano neretino Pantaleo Ingusci, il quale firma anche una memoria del Nostro alle pp. 235-237; a p. 187, degna di nota è la testata di un periodico indipendente, «il Leone» che «ruggisce in difesa della giustizia e della libertà» che Salvatore Napoli Leone aveva in mente di editare e che probabilmente non vide mai la luce.
Un altro motivo di interesse in me per questo straordinario imprenditore salentino di Nardò è quello di sapere che egli fu anche grafico, tipografo, editore e studioso di libri (un bibliofilo ante litteram in terra del Salento) e che la sua attività di editore (Casa editrice Leone) consistette essenzialmente nella pubblicazione di libri letterari e scientifici. Tra i libri da lui editati, alcuni censurati dal regime fascista, annoto con meraviglia titoli importanti per lo studio di varie discipline moderne: Gli inchiostri da scrivere (1919); Invenzioni ed inventori (1923); Procedimento di decorazione su velluto a mezzo di trasporto chimico – Brevetto “Neritos” (1926); I profumi e il loro potere psicologico sulla natura umana (1931); Chimica e alchimia (1931); Le percezioni dell’olfatto (1931); La scienza e l’empirismo (1932); Quando come e perché fondai la mia fabbrica di inchiostri “Atala” (1935); La psicologia degli odori e dei colori (1937); La teoria filosofica delle ombre e dei colori (1969). Interessante anche la pubblicazione dei suoi «Quaderni d’arte per gli artigiani». Ne pubblicò tre: I legni parlano (1932); Le pietre dicono (1933); I metalli ci narrano (1934).
Il libro sulla vita e l’opera di Salvatore Napoli Leone si chiude con una serie di giudizi di illustri personaggi italiani, tra i quali G. D’Annunzio, G. Marconi, T. M. Marinetti, al quale segue il lungo elenco delle decorazioni istituzionali, riconoscimenti ufficiali e premiazioni industriali italiane e straniere di cui egli ha fortunatamente goduto in vita. Ma ciò che più di ogni altro aspetto rende grande questo figlio di Nardò è quanto egli stesso pensava di se stesso, un pensiero decisamente contro corrente diremmo oggi, visti i tempi della più ingorda disonestà intellettuale e materiale, a cui si è ridotta la società occidentale contemporanea. Di sé, Salvatore Napoli Leone diceva: «Potevo essere disonesto diverse volte ed arricchirmi e non l’ho fatto. Potevo dominare il mondo. Se avessi avuto buon senso, e non l’ho saputo fare. Ho calcolato la potenza della coscienza che avrei dovuto mettere da parte in ogni atto della mia vita, farla tacere, e sarei diventato quello che sono altri: ricchi, potenti, dominatori. Mentre io sono sempre stato un umile lavoratore che si è arrabattato per vivere e tirare innanzi per avviare sempre più industrie».
Con ciò quanti milioni di anni luce siamo lontani dall’uomo di potere di oggi?
cioè costui ha inventato il cono gelato? quello nella cialda tipo wafer?!?!?!?!!?!?
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ha inventato un tipo di cialda e un macchinario per produrle a livello industriale. Sul libro è descritto anche questo aspetto della sua straordinaria creatività e del suo ingegno
Il cono cialda venne inventato da un marchigiano negli USA. La produzione del cono in Italia presentava un problema fondamentale: era “fragile” e si inzuppava facilmente di gelato diventando molliccio e sfaldandosi. Totò Napoli Leone riuscì a inventare un composto molto più resistente e a produrlo con macchinari e attrezzature inventate di sana pianta e alimentate (con 90 anni di anticipo sull’esigenza di risparmio energetico) a Metano.
Io ho lavorato alle sue dipendenze nella Tipografia che si trovava nelle adiacenze del Convento delle Clarisse ed ero affascinato dalla sua poliedricità. La sua invenzione che ricordo più conosciuta era allora il surrogato Leone che sostituì efficacemente il caffè negli anni dell’autarchia. Sarei molto grato se potessi reperire il libro di cui si tratta. nel caso il mio recapito è: Via Napoli, 64 – Soleto
salve signor enzo… ci possiamo mettere in contatto?
caffeparisi@gmail.com
grazie…