di Daniela Lucaselli
Il passato è la nostra storia, anche quando il percorso è l’espressione popolare di fede e di culto, eloquente testimonianza di cultura. La memoria storica conserva e ci tramanda preghiere e leggende agiografiche che arricchiscono la letteratura popolare.
Oggi il mio sguardo si è soffermato sulla statua della Madonna del Carmelo, che custodisco gelosamente nella mia dimora. Il manufatto, di qualche lustro fa, ad opera di un ignoto artista leccese, per tradizione passa da Carmela a Carmela… Carmela si chiamava mia suocera, Carmela si chiama mia figlia e….. il miracolo di ospitare un oggetto così prezioso si è tramandato. Un trittico di campane è riposto su un mobile, complemento di un arredamento rustico in un tinello ove abitualmente la mia famiglia soggiorna, come testimonianza di una tradizione sacrale di noi gente del Meridione. Ho scelto quell’inconsueta collocazione col desiderio che chiunque varchi la soglia della mia casa si accorga della sacra presenza. La più grande per dimensioni ospita un’immagine sacra: la Madonna del Carmelo (la parola Carmelo vuol dire giardino fiorito di Dio, ricco di acque e vegetazione). Quando sola in casa mi raggiro per le stanze vuote e silenziose, sono spesso rapita dalla sua attraente bellezza, dal suo sguardo dolce, penetrante ed espressivo quasi, oserei dire, catturata in un’estatica contemplazione. La devozione verso questo simulacro è ancorato nell’animo della pietà popolare. La Madonna del Carmelo è invocata per difendere le anime e le abitazioni dalle insidie della notte, delle tenebre. In passato il mio ricordo la vede riposta su un altissimo comò in noce dai cinque cassettoni o anche sulla cascia in camera dal letto. Un vetro soffiato, chiaro e cristallino, imperfetto, fragile, di forma cilindrica, chiamato campana, protegge la sua preziosità. I vetrai, nel loro gergo, la chiamavano la coperta. La sua base, in legno noce di forma circolare, ha il diametro di circa 14 cm e presenta sul piano di posa una scanalatura su cui è inserita la cupola di vetro alta 80 cm.
La composizione interna è un blocco unico in cartapesta e raffigura la statua della Beata Vergine, alta circa 60 cm., che regge sul braccio sinistro il Bambino Gesù col viso teneramente rivolto al mondo. E’ il segno di Maria che dona generosamente all’umanità il suo Figliolo.
L’espressione imponente della Vergine, che suscita rispetto ed amore, si completa con la posizione della mano destra che regge un piccolo scapolare, che secondo la tradizione sarebbe stato donato da Maria di Nazareth a San Simone Stock, sesto generale dei carmelitani. Anche il Bambino Gesù regge, con la mano sinistra, due reliquie uguali a quelle che regge la Madre, quasi a voler significare il legame indissolubile con la Genitrice e il segno di protezione per tutti i suoi figli. I suoi piedi nudi appoggiano delicatamente su due nuvolette simboliche di colore grigio, sulle quali sono posti, come sospesi, due angeli. La Vergine indossa un abito marrone, fatto anch’esso in cartapesta, con decorazioni dorate sul quale si avvolge un mantello color panna impreziosito anch’esso da ornamenti dorate. Un’ aureola a raggiera in metallo dorato anticato è posta sul copricapo di color panna contornato da un semplice merletto color ecrù.
Le altre due campane poste ai lati sono più piccole e alla sommità sono alte 60 cm. Dentro ciascuna di esse sono preservate, dall’usura del tempo, dei fiori in cera delicatamente posti in vasi in vetro, lavorati con decorazioni bianche e sfumature dorate, originari di Costantinopoli.
Le mie curiosità: A quanto risalgono questi simulacri e quali sono le caratteristiche.
E’ nel periodo della Controriforma, un momento singolare e delicato della storia religiosa, che la devozione e il fervore aumentò nei confronti di quelle statue protette dalla campana, dette comunemente scarabattole. Le dimensioni delle campane sono state varie: ne troviamo da un minimo di 16 cm ad un massimo di 101 cm. Risalgono al XVI secolo le prime urne di vetro che conservavano i corpi dei martiri, venerati in processione, e le statue dei santi poste in nicchie finestrate nelle cappelle e nelle chiese.
Quasi sempre era un soprammobile votivo realizzato in cera, cartapesta, terracotta, gesso, tessuto ricamato, legno scolpito e dipinto, vetro. alto dai 60 a 90 centimetri, che si teneva al centro del piano superiore del comò, sulle alzate o sulle angoliere delle cucine, soprattutto nelle abitazioni di campagna, ma anche in quelle di paese e di città. I loro abiti e ornamenti rispettano in miniatura ma con fedeltà le caratteristiche delle statue a grandezza naturale.
Le figure di Gesù Bambino, in particolare, erano deposte in culle corredati da soffici cuscini di seta e, per protezione, le si custodivano in cilindri di vetro o nella famosa scarabattola o carabattola, formata da una base di legno sulla quale si formava una cassetta di vetro a forma di parallelepipedo.
Le statuine di casa, le immagini votive, questi oggetti di devozione, si diffusero nell’Italia Meridionale, in particolare a Napoli, nella prima metà del ‘700, durante il regno di Carlo III di Borbone. Inizialmente erano dei manichini vestiti con stoffe pregiate provenienti dal setificio di San Leucio, presso la reggia di Caserta.
Si diffusero, probabilmente, dalla seconda metà degli anni venti del Settecento fino al terzo decennio del Novecento, nella Terra d’Otranto, in particolare a Lecce, dove l’arte della cartapesta si mise al servizio di queste opere sacre. Il momento culminante si registrò nell’Ottocento.
Cappelle, parrocchie, santuari ma anche residenze private custodivano un simulacro in cartapesta, opere quasi tutte autografate dai più famosi maestri leccesi.
Emblematica è certamente la presenza del culto mariano e la consequenziale scelta dell’icona della Madonna sotto i diversi titoli, come la Madonna del Carmine, la Madonna Addolorata, l’Immacolata, l’Incoronata, la Madonna della Pace, la Madonna della Neve, la Madonna delle Grazie, che simboleggia la funzione e il ruolo preminente esercitato dalla donna nella nostra società.
L’immagine sacra più frequente era quella della Madonna Addolorata, non meno diffusa di quella dei Santi, come San Francesco, Sant’Antonio, San Giuseppe, San Michele. Anche l’icona del Bambinello Gesù rivestiva la sua importanza.
Le suore di clausura, con la loro paziente ed abile maestria, confezionavano minuziosamente gli abiti in stoffa. Era tradizione, nel Meridione d’Italia, anche cambiare l’abito al soggetto a seconda delle ricorrenze dell’anno e di costruire, con la tela cerata o con la carta, intorno ad esso un ambiente con un habitat vegetale.
Il piccoli capolavori di statuaria sacra, facevano parte degli oggetti, costituenti gli arredi, i mobili che gli sposi novelli acquistavano dopo il matrimonio. Certo, il costo era alquanto superiore rispetto ai due consueti quadri che si appendevano al capezzale del letto matrimoniale. Spesso però, come la biancheria ed i mobili, al pari dei quadri, anche le statuine sotto la campana venivano donate dai nonni, come simbolo della loro fede contadina, in segno di continuità ed erano presenti in ogni dimora. La vita di tutti i giorni, contrassegnata da stenti, difficoltà, momenti di sconforto, portava tutta la famiglia a rivolgere anche solo uno sguardo sfuggevole a quella statuetta per ritrovare suggerimenti e forza per andare avanti. Quindi, queste statuine portavano al raccoglimento, alla riflessione esattamente come le divinità tutelari del focolare domestico, i numi tutelari della famiglia romana, i Lari e i Penati che proteggevano i viventi in ogni momento della giornata. La quotidianità e non l’eccezionalità, colta abilmente da grandi cultori di arte, seppe riprodurre situazioni particolari in cui l’uomo, particolarmente bisognoso di sostegno, si trovava al cospetto di queste immagini sacre.
Questo dimostra che la gente credeva di proteggere dall’usura del tempo con un cristallo o in una teca, la statuetta che l’avrebbe tutelata nei momenti difficili della vita. All’interno del focolare domestico era usanza creare gli altarini devozionali, al fine di preservare da possibili danneggiamenti le statuette votive dei Santi poste sotto le campane di vetro. Ogni statua in miniatura rispecchiava con fedeltà le caratteristiche delle statue ufficiali dei santi in grandezza naturale. Proteggere le reliquie sacre più care con il cristallo per la loro conservazione era un’espressione rilevante di rispetto.
La famiglia devota nascondeva sotto l’abito del Santo tutelare della casa, l’icona ricamata o dipinta di un altro Santo o di un’altra Madonna, per scongiurare il pericolo che quel Santo o Madonna potessero offendersi per non averli riposti sotto la campana.
Uso frequente della famiglia, fino agli anni ’20-’30 del secolo scorso, era riunirsi la sera dopo cena, intorno al braciere, per recitare il rosario, rivolgendosi alla Madonna sotto la campana. Ancora oggi, qualche famiglia pugliese conserva l’immagine sacra sotto la campana di vetro, mentre l’abitudine di pregare intorno al braciere è ormai scomparsa.
L’affermarsi della fotografia facilitò la diffusione dell’immagine stampata di un proprio caro o la figura di un santo che, riposti nell’ambito della campana del santo protettore di casa, in modo che, pur rimanendo sempre presente e in contatto vivo con la realtà domestica, venisse salvaguardato dalle insidie del mondo esterno. Il reliquario era l’espressione di un bisogno di protezione. Alcuni psicologi hanno letto in questa forma di protezione l’espressione di una maggiore potenza, di uno spazio magico, di un’aurea soprannaturale.
Quel simulacro in campana testimoniava l’intensa religiosità popolare vissuta tra le mura domestiche, in quanto era un’espressione di fede, un punto di riferimento, un sicuro protettore, vigile ed attento, di una famiglia che si rimetteva a lui, al suo sguardo, un discreto e silenzioso testimone di vita quotidiana.
Sotto la campana di vetro di frequente comparivano anche corone di fiori artificiali.
Gli studiosi di etnologia dicono che all’estero dove il cristianesimo era poco diffuso, queste figure sacre erano sostituite da altre immagini. Così da quelle parti, fra il XVIII ed il XIX secolo, sotto le campane di vetro comparvero composizioni floreali, uccellini impagliati, cavalieri e velieri.
Verso gli anni Cinquanta del Novecento, la casa delle moderne generazioni rifiutava simile soprammobile e se ne disfaceva con donazioni a vicini di casa o con abbandoni presso le chiese rupestri.
Bibliografia:
- L. De Venuto e B. Andriano Cestari, Santi sotto campana e devozione, Schena (1995);
- L. Marra, Le donne dei pastori, in Civiltà della Tavola rubrica di Cultura & Ricerca, n. 154/2004 pag. 74;
- M.A.C.S. Museo d’Arte e Cultura Sacra, Santi sotto campana fra tradizione e devozione popolare, 15 Agosto – 22 novembre 2008.
Quando la spiritualità diventa poesia come in queste delicatissime note di
Daniela.
vero, è sempre un piacere leggere le note di Daniela
idem!
A Daniela Lucaselli i complimenti per il documentato excursus su un a parte preziosa della nostra tradizione domestica, retaggio della cultura dei Lares e peraltro tuttora assai sentita e diffusa non solo in tutto il sud ma anche nel resto del Bel Paese. Mi preme sottolineare che specie la produzione pre-cartapesta aveva generalmente non l’intero corpo in cera, tipico dei “bambinelli” descritti da Daniela, almeno testa e mani in cera.
Personalmente da una bisnonna, nata ancor prima dell’unità d’Italia e che ragionava ancora in termini di “turnisi” e non di lire, e per questo detta dai nipoti la “Borbone”, ho ereditato una Madonna dei Fiori ( culto gallipolino del mese di maggio) della quale usciva anche la statua in processione (ricordi dei primi anni ’50…), di arte decisamente povera con il vestito bianco in seta (?) e tulle, trapunto di stelle teneramente fatte di carta stagnola(!), ma con mani e viso in cera con lineamenti assai fini .
A Marcello Gaballi e alla redazione, mi viene in mente di proporre un censimento Anonimo (per motivi di sicurezza!) sulla statuaria religiosa domestica del ‘700 e ‘800 salentino affidando magari a Daniela, e ad altri esperti volontari una classificazione delle opere, in una special page di spigolature…
Lo stesso si potrebbe realizzare per la ceramica maiolicata salentina, sempre in anonimato, includendo la produzione di Laterza, per la quale gli eserti non ci mancano.
Ma forse questi sono sogni di un salentino anziano, ma sempre assai entusiasta di ogni recesso della cultura ricca e povera della nostra Terra!
Accetto volentieri il suggerimento propostomi da Luigi. Anche Marcello mi aveva, appena letto l’articolo, invitato a portare avanti un’analisi in questa direzione. Rivolgo ad entrambi un sentito ringraziamento.
Con piacere ho letto le note squisite di Angelo, Pier Paolo e Sandro. Grazie!