di Paolo Vincenti
Mentre tornava a casa quella notte e i semafori avevano appena iniziato a lampeggiare e gli veniva istintivamente voglia di invadere l’altra corsia e di buttare le cartacce dal finestrino, pensava che qui da noi, dopo la mezzanotte, si avverte come un senso di sbrago, di impunità, quasi come una più accentuata libertà di fare quello che di giorno non è permesso; al tempo stesso, però, mentre abbassava un poco il volume dell’autoradio, pensava che, chi fa le ore piccole fra queste contrade, si sente un po’ un disertore e gira come un ladro o un cane bastonato, con la paura di venire da un momento all’altro braccato; perché queste strade, per qualche ragione che non sapeva spiegare, ma che doveva avere a che fare con i sensi di colpa, sicuramente, con un complesso di inadeguatezza, con la sua scarsa coerenza o con qualcosa di rimosso, è come se appartenessero a chi di mattina va a lavorare; dunque, quella di sentirsene padrone di notte, sapeva, è solo un’illusione, una sensazione passeggera, perché si sa che quella sbornia terminerà inevitabilmente nell’arco di poche ore e dunque si tratta di un’appropriazione indebita, di contrabbando, ed anche la notte, si finisce con il sentirla clandestina, come clandestino è il cuore segreto di chi la vive… dunque, pensava, nel volgere delle brevi ore notturne, a quell’esaltazione di cose proibite, a quella brama di inconfessata turpitudine che eccita a fondo chi una morale non ce l’ha; e incrociando gli altri fari delle auto di fronte, anime perse che andavano a fondo, come lui, e come lui, forse, piccoli vascelli alla deriva nel buio dell’anima, sentiva di provare una sorta di umana compassione, di solidarietà fra consimili o, addirittura, di affinità, con chi gira di notte, con i vagabondi, i senza patria, i derelitti, gli impostori, con tutti quelli insomma che hanno un qualche tiramento, una pena; pensava alla sua famiglia, una moglie e due figli che dormivano insieme nel lettone, poiché lui era autoconfinato nel lettino di una delle due camerette, e nella scala dei valori, si chiedeva, quale posto doveva aver sempre dato ai propri piaceri, sicuramente un posto molto in alto, se si trovava una volta di più a ritornare a casa alle 4 di mattina e a non avere nemmeno voglia di rientrare ancora… c’era qualcosa, come un sommovimento dell’anima, un bagliore all’angolo della strada, come un riflesso incondizionato, un desiderio inconfessato, come un tempo sfibrato, ma legato ancora a riti e miti ormai obsoleti, passati, scaduti, sfilacciati, come di un’era in dissoluzione, c’era qualcosa, insomma, nella contemplazione del primo chiarore aurorale, che lo spingeva a fermarsi qualche minuto in più in macchina, per fissare su un foglietto alcuni versi che una improvvisa ispirazione gli stava dettando; ed era dolce, ogni volta che succedeva, farsi trasportare dalla corrente di quel fiume in piena che erano le sue idee che diventavano poesia, le sue liriche che prendevano corpo… dolce e amaro al tempo stesso, come questa terra, che doveva amare davvero tanto, tanto da odiarla, se non era andato via quando ancora era in tempo, quando davvero avrebbe potuto fare carriera su al settentrione e non c’era ancora una famiglia, ed era tutto da costruire… però lui aveva sempre creduto nella magia del sud, nell’incanto di questi posti che lo avevano visto nascere e crescere, anche se la sua, più che inconfessata nostalgia di ciò che è vicino, o melanconia, era stata pigrizia trista e controproducente, una forma di indolenza di fronte alle cose, un mal di vivere sottile che da sempre si portava dentro, e si era perciò come lasciato andare agli eventi, travolgere dalla forza vorticosa di una spirale che lo scuoteva, nell’abbraccio fatale di una terra che, allora ancora non immaginava, gli avrebbe succhiato via il sangue, con tutta l’energia, con la passione, il coraggio, l’entusiasmo, la voglia, gli avrebbe preso tutto quello che era la sua giovinezza, rendendogli in cambio uno straccio di vita, senza più aspirazioni, senza velleità, senza quelle piccole cose che aiutano a colmare il vuoto immenso che ci circonda…
Pensava che, nella dimensione dilatata, un poco ovattata della notte, l’ispirazione deve avere a che fare con la puzza di zolfo, con qualche cosa di demoniaco, come il patto di Faust con il diavolo, come le lettere di fuoco trovate nella cabina interna dell’armadio, come con l’albero degli impiccati, con i passi lenti e zoppicanti sul pavimento della veranda, come il volto senza nome che ti guarda con occhi incandescenti nell’oscurità, come lo spettro della tua cattiva coscienza che ti segue fino alla porta di casa e non ti molla nemmeno quando sei entrato, nemmeno quando sei ormai a letto, ma continua a soffocare il tuo petto, a tormentare il tuo sonno.
Quand’era giovanissimo, prima di questa movida esasperata, i locali di notte bisognava davvero saperli cercare, tanto erano poco numerosi, e se suo padre non gli avesse ripetuto fino alla nausea che di notte girano solo i delinquenti e le troie, forse, non avrebbe avuto ora, dentro, quella sensazione di proibito, quella voglia di trasgressione, ora la notte non sarebbe stata per lui l’ultima giostra ancora accesa, l’ultimo domicilio conosciuto, come l’ultima spiaggia dove si danza ancora fra le dune in una vertigine di tentazioni e perversioni. In effetti, nonostante il tempo trascorso da allora, il progresso, l’emancipazione femminile e la liberazione dei costumi, era convinto che questo posto continuasse a non esser fatto per la notte… e come gli assassini, i capobanda, i truffatori e i puttanieri sanno che hanno poco tempo per i loro sporchi giochi, anche lui, quando tornava molto tardi, continuava a sentirsi come un pipistrello; e quella notte non faceva la differenza, perché qualcosa gli diceva che queste strade appartengono a quei bravi cristiani, dai quali era continuamente circondato di giorno, che si alzano la mattina presto per andare a lavorare, come mediamente faceva anche lui, salvo prendersi, poi, delle pause salutari di anomalia, che erano come degli strappi, delle lacerazioni rispetto a quella finta normalità in cui viveva ogni giorno. E così, si mise a scrivere, in macchina, come l’ultimo tributo ad una notte goduta a pieno…
L’alba ormai dilagava, erano le 6, e aveva lasciato la macchina nel garage per rientrare in casa con passi felpati come un ladro… sarebbe accaduto il finimondo, se sua moglie si fosse svegliata e accorta dell’orario… erano in contrasto su tutto, con la moglie, ma non era quello il momento per le solite sterili e inconcludenti discussioni…
Il garage era diviso da casa dalla strada e, nell’attraversare, ancora preso dalle sue elucubrazioni, non si avvide del camion della spazzatura che passava ad una certa velocità e che lo travolse. Il trambusto, nel silenzio della prima mattina, fu forte e svegliò tutto il vicinato. E lui, come se nel libro dei deliri avesse sfogliato l’ultima delle pagine della notte, come una distrazione di luce in un tutto unico compatto buio, come se il camion della spazzatura fosse un bastimento carico di novità tutto illuminato nel selciato mare della notte, che venisse a prenderlo per trasportarlo in qualche terra di sogno non ancora esplorata, mai ancora immaginata, si lasciò andare, sentendo tutta l’energia vitale che abbandonava il suo corpo… l’ultimo pensiero fu per i suoi figlie e sua moglie… poi, non sentì più niente.
Si svegliò a distanza di alcuni giorni in un letto d’ospedale, circondato dai suoi cari, con una gamba amputata e diverse costole rotte, tuttavia vivo, ed anche fortunato, a detta dei medici, per come era andata, perché un impatto così violento avrebbe potuto anche ucciderlo. Lui, inutile dirlo, non era affatto d’accordo con i medici ed i suoi famigliari, anzi sapeva che avrebbe preso a maledire quella “fortuna” molto presto. Passarono le settimane, il Salento d’estate iniziava a brulicare di feste e sagre, a riempirsi all’inverosimile dei turisti che invadono le nostre coste ed anche le città interne, attratti da quella sorta di febbre che da anni ormai imperversa in tutta Italia.
Nelle lunghe sere di degenza, solo e immobile nel suo letto d’ospedale, pensò spesso a come coniugare la parola muta, lo strazio, la pena, al cuore dei vent’anni, quegli amari tetri pomeriggi dell’autunnale festa con il bagaglio di voci, di ricordi, canzoni, con i barbagli di luce che dallo specchio del piccolo laghetto dell’ospedale si riflettevano sulle sue finestre… guardava la torre dell’orologio della chiesetta di fronte scomparire nel buio della sera e pensava alla fretta distratta dei corrieri e ai suoi colleghi di lavoro che a quell’ora stavano ritornando nelle loro case, e che, come lui tutte le sere in cui era tornato a casa, sconvolto e amareggiato da un lavoro che non gli era mai piaciuto, lasciavano passare indifferenti, inascoltato, dimenticato, quel treno che, sbuffando, ancora sferragliava alla stazione, ancora deragliava sui binari morti dei ricordi…
Pensava a come declinare l’invito della vita che fuori da quel luogo di sofferenza ancora gridava e chiedeva la propria parte e tante volte lo aveva chiamato alla festa dei sensi… come analizzare il periodo complesso delle ansie disattese, dei falliti sogni, con la grammatica degli abbandoni, dei corpi deviati in volo, delle sfere rotanti, della giostra della memoria… come farsi una ragione di quel tempo così triste, ancora più cupo che lo attendeva… E poi pensò a versi nati male o mai nati, agli amori dispari, amori sbagliati di una stagione andata, alle sere d’estate accompagnate da una musica leggera, come le leggere parole di quando non si ha ancora l’amarezza della triste rinuncia, di attesa e di speranza, di quei sussulti che spettinano i pensieri già disordinati… a versi riusciti bene e ad amori pari, a desideri che si tendono fino allo spasimo come degli elastici… poi ai sogni d’oro dei suoi bambini, alle nuvolette disegnate sui loro cuscini e al minimo soffio di vento che le disperde nella sera… A tutto questo pensava, mentre la notte, l’ennesima notte, calava sulla città madida di sudore di un giorno di caldo giugno afoso… Poi non pensò più niente, fece solo uno sforzo sovrumano per alzarsi dal letto e raggiungere la finestra, staccarsi i fili che lo imprigionavano come la tela di un ragno e sentire quell’aria fresca che finalmente portava un poco di sollievo in quella stanza di dolore.
Il suo letto era vuoto quando, la mattina dopo, l’infermiera entrò nella sua stanza… lui era cinque piani più in basso, che stringeva nella mano una lettera sulla quale c’erano scritte poche parole: “vi amo”, e seguivano i nomi dei suoi due figli e della moglie, “ma sono troppo stanco, perdonatemi se potete…”
Complimenti Paolo! Un testo veramente bello
Il dramma di vivere. La vita comincia ad essere un peso perchè si perde la leggerezza degli anni dell’entusiasmo, della speranza, delle lotte e del bicchiere mezzo pieno. Si baratta sempre tutto con qualcos’altro, il punto è capire se ne vale la pena. Il protagonista di questo bel racconto di Paolo è già stato risucchiato nei confini del proprio passato insieme ai ricordi e ai rimpianti. Solo il legame con la famiglia lo accoglie nel presente, un presente notturno. Brinda l’inutilità al banchetto del destino e il camion dell’immondizia non uccide il nostro primo attore ma gli indica la strada fino al bivio della scelta, la scelta già fatta da tempo.