di Armando Polito
È una delle mie tante società, ormai, non registrate, non quotate in borsa e, stranamente, non aventi sede in qualche paradiso fiscale. Non ho la minima intenzione di mettermi in regola, anzi dichiaro pubblicamente fin da ora che, se le autorità competenti, nell’ambito dell’intensificazione della lotta all’evasione fiscale, dovessero prendere i dovuti provvedimenti a mio carico, anche nel caso (tutt’altro che improbabile…) di condanna (mia… e del mio socio Nerino) all’ergastolo, continuerò imperterrito a sfornare (in pratica impunibile, perché 1 ergastolo+1 ergastolo solo in matematica dà 2 ergastoli…) in carcere società di questo tipo, fino alla fine dei miei giorni.
In attesa che tutto ciò avvenga da un momento all’altro, invito il lettore a leggere cosa offre la società (la mia e anche quella di tutti…) di oggi.
Tra gli strumenti “educativi” del tempo che fu, insieme con lu battipanni, la ugghìna1 e la curèscia (correggia, cinghia dei pantaloni sempre, purtroppo, a portata di mano … del padre, mentre la madre tentava di sottrargliela) c’era lu ìnchiu, cioè un pollone, solitamente d’olivo2 che, opportunamente usato (opportunamente si riferisce, almeno si spera, al nesso di causualità insubordinazione>pena, non certo al possesso di un titolo di studio, all’epoca poi…, necessario per utilizzarlo adeguatamente), lasciava sulla schiena, ma preferibilmente sulle gambe, parte solitamente scoperta soprattutto in estate, del malcapitato (chi faceva parte di una famiglia cittadina era favorito, perché allora gli olivi crescevano in campagna, oggi manco in quella…) i segni del suo passaggio, cioè degli arrossamenti chiamati, con un pizzico di enfasi che trovava riscontro nella realtà solo poche volte (il genitore, per quanto severo, non era un aguzzino, come oggi la cronaca ogni tanto registra…), issìche (vesciche).
Non è mia intenzione avventurarmi in analisi pedagogiche e sociologiche che non mi competono; guardo soltanto sconcertato, io che ho assaggiato, anche se poche volte, battipanni, ugghina e curèscia e ho punito i miei figli in altro modo (sì, con un esemplare modificato di vergine di Norimberga…), ad alcuni aspetti dell’educazione attuale improntata al tutto e subito, alla necessità sentita primaria di apparire e non di essere, alla rinunzia e al sacrificio come valori che onora solo chi non avrebbe (gli interessati usano l’indicativo…) capito come va la vita. Anche i furbi, però, a volte perdono la pazienza e ogni tanto si assiste a reazioni inconsulte dovute non al nesso di casualità azione>reazione di cui parlavo all’inizio ma proprio alla “strana novità” della stessa reazione che prima di allora mai si era manifestata. La cosa più triste, secondo me, ma paradossalmente salvifica, almeno in parte, alla distanza, è che la crisi attuale creerà una massa enorme di giovani disperati ai quali non resterà che autoeducarsi al sacrificio (per loro la vedo dura…) o delinquere o suicidarsi.
Tornando al nostro strumento di tortura (!), ìnchiu (c’è anche il diminutivo inchiùlu) corrisponde all’italiano vìnchio (o vinco), dal latino vìnculu(m)=legame, attraverso i passaggi: vìnculu(m)>vinclum (l’ultima forma, derivante dalla precedente con sincope di –u-, si alterna ad essa nell’uso del latino classico)>vìnchio. Ìnchiu ha subito in più la consueta (come in vìncere/incìre, venìre/inìre, etc. etc.) aferesi di v-. Direttamente da vìnculu(m) è derivato l’italiano vìncolo col suo significato metaforico, rispetto a vìnchio, che apparirà più chiaro fra poco.
Vìnculum deriva dal verbo vincìre=legare (da cui l’italiano avvìncere), a sua volta dalla radice vi– del verbo vière=piegare, legare, intrecciare, del quale esiste anche la forma incoativa vièscere=piegarsi sullo stelo, avvizzire. Il participio passato di vière è viètus e da questo secondo me deriva l’italiano vieto=vecchio, superato, malaticcio, avvizzito.
Mi ha sorpreso, perciò, leggere “dal latino vetu(m)=vecchio” nel Dizionario De Mauro, e “dal latino vetus=vecchio”, nel dizionario Treccani on line. Se non fosse stato per ìnchiu probabilmente non avrei mai avuto l’occasione di controllare l’etimo di vièto e non mi sarei accorto di queste due etimologie che, secondo me, sono fasulle. Comincio dalla prima dicendo subito che vetum in latino non esiste, nemmeno in quello medioevale (nel nostro caso, poi, mancando l’asterisco non è da intendersi neppure come voce ricostruita…). Passando alla seconda le cose, almeno inizialmente, sembrano migliorare, nel senso che vetus in latino esiste ed è un aggettivo ad una sola uscita (nominativo vetus, in autori arcaici veter, genitivo vèteris); di norma le parole si formano dall’accusativo maschile che nel nostro caso è vèterem che sopravvive nell’italiano vetero-, primo componente di alcune parole composte di formazione moderna. Ci saremmo aspettato, perciò, vètere/vètero, non vièto. Qualcuno potrebbe spiegare l’etimo della Treccani dicendo che la voce si è formata non dall’accusativo maschile (vèterem) ma da quello neutro (vetus). Sarebbe l’unica eccezione che io conosco, a parte meglio (da mèlius) e peggio (da pèius), rispettivamente per migliore e peggiore, nei quali, però è evidente il cambio di marca grammaticale (da avverbio ad aggettivo) di uso popolare. Appare invece di una linearità fonetica e semantica a prova di bomba, direi da manuale, far derivare vièto da viètus/a/um= che si piega, flaccido, cascante. E poi, se veramente vieto fosse derivato da vetus e di quest’ultimo vietus fosse stato una sorta di variante, Terenzio ci avrebbe lasciato (Eunuchus, 688): Hic est vetus, vietus, veternosus, senex, colore mustellino (costui è antiquato, flaccido, rimbambito, vecchio, con la carnagione del colore di una donnola)? E pure nel latino medioevale avremmo avuto viètum per il quale nel glossario del Du Cange, Favre, Niort, 1883, tomo VIII, pag. 325, al lemma relativo leggo: incurvum, inflexum; unde vietos vocaverunt ligna rotarum quae cantu ambiuntur (cosa curva, piegata; perciò chiamarono vieti i pezzi di legno delle ruote che sono uniti dal cerchione)?
La mia speranza è di suscitare qualche interesse in chi è appassionato di questioni del genere ma ancor più di provocare l’intervento di qualche addetto ai lavori che non dico senta il dovere, ma almeno abbia la bontà di degnarsi a precisare e correggere pubblicamente le mie scemenze, reali o presunte.
Probabilmente il rigore scientifico di questo spazio è ancora così basso che bisogna attendere tempi più propizi… eppure, in rete non è difficile imbattersi in siti nei quali l’acribia appare come una stranezza da alieni e incontrarvi il nome di accademici che “ci mettono la faccia”, probabilmente a loro insaputa…
Tornando per la seconda volta all’assunto principale va detto che alla stessa radice vi- di vière si collega vimen=vimine (secondo un processo di formazione con l’intervento di un infisso nasale come in lumen =luce da lucère=splendere, flumen=fiume da flùere (scorrere), semen=seme da sèrere=seminare, etc. etc.)3, ramo flessibile, paniere, dal cui aggettivo sostantivato (per ellissi di collis) viminalis è derivato il Viminale (chissà se, ripristinando le piantagioni di vimini e la relativa coltura, da affidare a tutti coloro che attualmente ci lavorano con retribuzioni, va detto, indegne…di un paese serio, le cose non migliorerebbero…). E alla radice vi– potrebbe connettersi pure vitis=vite (solo la pianta) da cui in italiano vite (la pianta e l’oggetto).
–Pi osce nd’ha bbinchiàti– mi sembra di sentir dire da più voci. La traduzione letterale sarebbe Per oggi ci hai saziato, locuzione che è l’elegante ed eufemistica variante di Per oggi hai rotto abbastanza, in parole povere, anzi in una sola parola, Basta!
Credo però che, una volta imb(r)occata la strada del vizio, soprattutto se prima o poi si sa di poter e voler ritornare, conviene percorrerla fino in fondo. E io aiuterò il lettore, spendendo le parole finali proprio per bbinchiàre che nel dialetto neretino è usato nel duplice significato di saziare e di colpire.
Per il Rohlfs si tratta evidentemente di un’unica voce, poiché al lemma abbinchiàre leggo: “empire lo stomaco, saziare, rimpinzare; bbinchiare soddisfare, tempestare di colpi [identico all’italiano avvinchiare incrociato con il salentino nchiare=gonfiare].
Credo, invece, che bbinchiàre=colpire derivi dal latino ad+vinculàre=legare, incatenare (stessa etimologia di avvinchiare, variante meno usata di avvinghiare), a sua volta da vìnculum, ma che nella voce dialettale fa prevalere il significato di strumento con cui percuotere più che legare, in linea con il mezzo “educativo “ di cui, sempre all’inizio, ho parlato (trafila: *advinculàre>avvinculàre>abbinchiàre>bbinchiàre). E, visto che, come ho detto all’inizio, vincìre è connesso con vìnculum e da vincìre deriva l’italiano avvìncere non è difficile cogliere il rapporto formale e semantico tra avvìncere ed avvinghiare, tutti discendenti della radice vi-.
Bbinchiàre=saziare, invece, secondo me deriva da ad+(v)unchiàre (variante di nchiare citato dal Rohlfs) che è dal latino inflàre=gonfiare (trafila: *advunchiàre>*avvunchiàre>*vvunchiàre>*vvinchiàre>bbinchiàre).
Tutto ciò permette di evitare l’incrocio proposto dal Rohlfs, che oltre che nelle vie di comunicazione urbane ed extraurbane, è sempre pericoloso, forse proprio perché costituisce la soluzione più facile, pure sulla strada, già di per sé impervia, della filologia.
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2 Mi meraviglio che come giustificazione all’espianto di ulivi, secolari e non, nessun politico abbia addotto l’esigenza di evitare che prima o poi si corra il rischio che a qualche genitore venga la tentazione di punire il figlio per qualche marachella con l’antico strumento del vinco. Ma, forse, immaginare in un politico tanta, pur strumentale fantasia, è troppo…
il (v)inchiu come pollone potrebbe prendere il nome dalla sua funzione accessoria nella potatura degli ulivi quando era usato come legatura delle fascine?
binchiu qui al porto di castro è l’inerzia della barca che va a scontrarsi. “poi cullu binchiu su spattutu su nu cute…”
Mi pare del tutto evidente che la risposta affermativa alla tua domanda è, come scritto nel post, nel significato di “legame” che ha il latino vìnculum.
Il Rholfs registra per Alessano “bbìnchiu” col significato di “forza d’inerzia”, senza alcuna proposta etimologica. A Nardò la stessa voce è usata col significato di “sazietà” ed è, evidentemente, da bbinchiàre=saziare (come nel post ho argomentato, bbinchiàre=percuotere per me è solo un omofono). Credo che il significato di “forza d’inerzia” sia invece legato, per la tua voce, a bbinchiàre=colpire, per cui bbìnchiu ricorderebbe la spinta iniziale che poi continua nella forza d’inerzia.
binchiu potrebbe avere un significato più comune: binchiu come forza d’inerzia starebbe per “il di più di quello che sarebbe servito per ottenere l’azione, così come pure “sazio oltre il bisogno”. anche qui da noi si usa binchiare come saziare.
infatti non esiste il verbo saziare. “M’aggiu bbinchiatu”, “l’aggiu bbinchiatu bobo bonu de mazzate”, ma pure col senso di colpire “porca l’oca, aggiu binchiatu nu corpu an capu…”
In assenza pure a Castro di “bbinchiu”=colpo, è più plausibile la tua interpretazione.
Dall’inciso in grassetto, deduco che al nostro Armando piace “assaggiare” lu ìnchiu del dibattito filologico amichevole (mai mi permetterei di dire scientifico, considerate le mie modeste conoscenze!).
Ora, strettamente connessa all’indagine linguistica del verbo salentino bbinchiàre (per il quale sono stati proposti, in autorevoli saggi, i lat. IMPLERE>*IMPLARE, lat. AB+IMPLERE, lat. AB+INFLARE, idem X ital. ABBOTTARE), oso esporre la mia ipotesi etimologica, che probabilmente farà torcere il naso.
Ebbene, d’accordo con l’esposizione del signor Armando, il verbo in questione (bbinchiàre e non binchiàre) lo ritengo strettamente legato (‘vincolato’) al sostantivo (v)ìnchiu, in quanto derivato da una forma latina volgare *ADVINCULARE, che in alcuni dialetti meridionali ha dato forme con i passaggi fonetici ben noti: –DV->-bb, -NCL-> -nchj-/-nghj-. Quindi, dicevamo, la voce *ADVINCULARE dovrebbe aver avuto un primo significato con il senso di «percuotere (con violenza) con il ‘vinchio’ persone, animali o cose» (così ad Andretta AV abbënghjà, a Farnese VT avvenchià). Da qui, vuoi per le “essìche” prodotte, vuoi per il significato esteso, in altri dialetti ha dato il significato di “gonfiare” e quindi “satollare, rimpinzare, saziare” (così a Corato BA abbënghjà, a Bari abbëgnà, a Lecce bbinchiàre); semanticamente simile, si ha nell’italiano “gonfiare di botte” > “riempire di botte”.
Ritengo meno probabile che bbinchiare sia un verbo denominativo da vìnchiu con il prefisso AD-; alcuni parlari salentini hanno formato il verbo apposito vinchisciàri ‘colpire con il vìnchiu’ (così a Latiano).
Per quanto concerne l’aggettivo vièto “vecchio” mi chiedo se esso veramente derivi dal lat. vĕtus-vĕtĕris-vĕteri-vĕtĕrem-vĕtŭs-vĕtĕre, allineato ai sostantivi del tipo lătŭs-lătĕris-lătĕri-lătŭs-lătŭs-lătĕre, che per analogia, forma un accusativo *vĕtŭm, con normale dittongazione di ĕ in sillaba aperta a iè (cfr. pĕdem > piède). Inoltre, l’etimologia del toponimo Orvièto (da Urbs vetus) porrebbe un altro tassello a favore.
Caro Fabio, accetto tutte le frustate, dilettantesche o professionali che siano, purchè in qualche modo, magari discutibile, motivate. Tra le ultime attendo da anni quelle di qualche accademico il cui mancato intervento può essere stato indotto da scarsa frequentazione della rete o da limitata o nulla dimestichezza con la stessa (a parte il fatto che oggi un filologo, come chiunque si interessi di ricerca, non può fare a meno del pc, gli allievi che stanno a fare?). Siccome in privato qualche attestazione di stima (su argomenti di natura etimologica non trattati in Spigolature ma su un altro sito) mi è pervenuta da parte di accademici pure autorevoli (da questi ultimi e da quelli che, per i miei gusti, autorevoli sono un po’ meno, mai un rimprovero), escluderei che il mancato intervento nel nostro caso (meglio nei nostri casi, perché le questioni poste cominciano a diventare molteplici) sia dovuto al fatto che ipotesi mie e dei miei commentatori non sarebbero degne della minima attenzione. Per ora, perciò, dobbiamo accontentarci dello scambio di idee fra noi dilettanti allo sbaraglio.
Per la prima questione da te agitata non è da escludere che le “issìche” siano il trait d’union tra l’idea del percuotere e quella del saziare, dal momento che l’etimologia è piena di salti metaforici ben più arditi.
Per quanto riguarda “vieto” (mi è piaciuto l’asterisco da te, non dal De Mauro, premesso all’analogico vetum) a me appaiono determinanti, a favore della mia tesi, le due testimonianze addotte. Quanto ad Orvieto sai benissimo la miriade di ipotesi avanzate da tempi immemorabili sulla sua etimologia (è stato messo in campo pure l’etrusco) e in particolare come Urbis vetus (a partire da documenti del X secolo “Urbiventum”) sia attestato, anche nella variante “Urbevetus”, in Paolo Diacono (VIII secolo). Tutte queste varianti mi sembrano la trascrizione (con arbitrario adattamento al latino, eccetto “Urbiventum”) del greco Оυρβιβεντός di Procopio di Cesarea (VI secolo). E, se la prima parte (Оυρβι-) potrebbe pure collegarsi ad urbs/urbis, non si capisce nella seconda (-βεντός) l’aggiunta di ν. D’altra parte il tentativo (di origine quanto popolare?) di “nobilitare” certi toponimi offre un altro indiscutibile esempio in “Urbino” che in latino è Urvìnum (Plinio e Tacito nei migliori codici), probabilmente connesso, per la configurazione del territorio, con urvum=manico dell’aratro) . Per questo non ritengo il presunto “Urbs vetus” sfruttabile.
Restiamo sempre in attesa (però io comincio a stancarmi…) di frustate, soprattutto da coloro che, almeno in teoria, dovrebbero essere maestri nel darle.
Concordo pienamente su quanto hai detto…
Gli accademici non ci mettono la faccia se non c’è in vista una pubblicazione, un’intervista, un convegno, ecc.
Per conto mio, sono felicissimo dei tuoi interventi, i quali mi aprono a nuovi scenari.