CIVILTA CONTADINA DI FINE OTTOCENTO
CANTANDO DI NOTTE SULLA STRADA VERSO I CAMPI DA SPIGOLARE
LU CARROFALU RUSSU
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
Chi non è stato mai su un’aia nel tempo delle messi non può sapere quanto costava raccogliere i frutti della terra: sudore, vento e pula facevano dell’aia nna pinitènzia ti Ddiu, dimensione che sembrava trascendere la concretezza del momento per elevarsi a essenza di oblazione e stabilire, in forma quasi liturgica il prezzo del pane. Il pane visto come morso di vita, frutto di un ancestrale rapporto fra il sacrificio dell’uomo e le forze benefiche della natura, e perciò invocato, amato e rispettato fin nella più piccola delle briciole.
L’uomo dell’oggi, l’uomo del benessere, che affogato nel superfluo non si fa scrupolo a buttarlo nei cassonetti delle immondizie, non può certo collocarne l’immagine nel magma rovente delle aie; e di conseguenza non può comprendere sino in fondo la gioia che dilagava nei cuori di fronte al ripetersi di quell’annuale miracolo, poiché colmarsi le mani di grano equivaleva a foderarsele di oro e sentirsi eletti della Provvidenza.
Mietere, trebbiare, ventilare, era un portare a compimento il parto della terra, e come in tutti i parti veniva a stabilirsi un bilancio fra travaglio di doglie e apoteosi della fertilità: ne nasceva un ‘atmosfera irripetibile, nel riverbero stimolante del sole che accelerava i ritmi del sangue in un pullulare di risvegli.
Le donne che andavano a spigolare non si sottraevano alla magia del momento, e anche il loro marciare antelucano verso i campi si compiva all’insegna di un fermento che le rendeva svelte nel passo. Le più giovani diventavano addirittura irrequiete, e sembravano tante capre sfuggite al vincastro del pastore: gli afrori estivi le avvolgevano in una cortina di indecifrabili provocazioni, lievitandole in sensazioni nuove, quasi che l’avvenuta maturazione dei frutti s’innescasse nel profondo del loro essere suscitando la consapevolezza di un’età già pronta all’offerta.
Complice il buio dei viottoli, pronto a nascondere ogni eventuale insorgere di rossore, potevano proclamare la loro fioritura e farsi audaci nella scelta degli stornelli d’amore.
Aggiu chiantàtu
nnu carròfalu russu intra’a nna rasta,
l’àggiu ndacquàtu
cu stiddhre ti muttùra
e mmo ca mi stà ffiùra
lu mpennu a llu farcòne
uhlallàaa…
lu mpennu a llu farcòne
uhllàllàaa… uhllàllàllàaa…
Lu mpènnu a llu farcòne
e cquannu passi
tu l’à bbitìre
e à ccapiscìre
ca quiddhru fiùru russu ete nnu core
core ca bbatte, core ca more
core ca more, ca more pi tte…
Lu mpènnu a llu farcòne
uhlallàaa…
lu mpènnu a llu farcòne
ullàllàaa… ullàllàllàaa…
Sotta’a llu farcòne
t’à ffirmàre,
ddhru fiùru russu tu ti l’à ccugghìre
e li suspìri tutti nn’à ccuntàre
ti ddhru fiùru ca ete core
core ca bbatte, core ca more
core ca more, ca more pi tte…
Lu mpènnu a llu farcòne
uhlallàaa…
lu mpènnu a llu farcòne
uhllàllàaa… uhllàllàllà…
Dai casolari sparsi nella campagna faceva eco l’abbaiare dei cani, insospettiti da quell’insolito spiegarsi di voci, e se non c’era la luna a latteggiare il paesaggio si poteva scorgere, aguzzando lo sguardo nel buio, l’alone tenue di qualche lampada o lucerna lasciata accesa all’esterno, posata sulla soglia o appesa al ramo di un albero. Uso quest’ultimo adottato nei periodi di raccolta, sia per testimoniare presenza umana sul podere e quindi sventare in partenza eventuali tentativi di furto, sia come gesto propiziatorio, in quanto l’ardere dell’olio, si diceva, sacralizzava la notte, attirando benedizioni sulle fatiche del giorno. Propiziazione che, sia pure solo di riflesso, si estendeva alle spigolatrici di passaggio, poiché queste, scorgendone di fra la geometria dei rami il chiarore, non esitavano a tendere le mani per simbolicamente raccoglierne il benefico influsso.
“Ardi puru pi nnui, puru pi nnui…”, supplicavano in coro; e spesso l’occasionale pausa frantumava il clima di spensieratezza: quella fiammella nella notte era un tangibile richiamo alle realtà della vita, e soprattutto le più anziane se ne facevano immediato carico meditativo, il che le spingeva a proporre di lasciare da parte le stornellate e immergersi nella recita del rosario. “Pinzàmu a lla sarvèzza nòscia…”, dicevano cavando la corona dalla tasca, e nel timore che le ragazze potessero trovare noioso l’essere costrette alla preghiera quando c’era da vivere e godere l’eccitante avventura della strada, ripetevano con voce sempre più concitata: “Pi lla sarvèzza noscia… pi lla sarvèzza noscia…”. Una sorta di cifrato avvertimento sulla cui intelligibilità non avevano dubbi, nascendo questo dall’uso di mai iniziare il rosario se non dopo aver ottemperato al preliminare di una dedica, mediante la quale veniva precisato quello che si voleva ne fosse il campo beneficiario.
Ora, se con la formula “Pi ll’ànime sante ti lu purgatoriu”, si intendeva devolvere i frutti della preghiera a suffragio dei defunti, e con quella “Pi lla sarvèzza ti l’ànima nòscia” accaparrarsi i beni eterni, cioè lu parajsu, dicendo semplicemente “Pi lla sarvèzza noscia” ci si trasferiva sul versante della quotidianità, abbisognevole, oltre che di propiziazioni per il buon esito delle raccolte, di protezioni dai pericoli, primi fra tutti quelli che potevano proporsi durante il lavoro.
A ttièmpu ti miéssi, per le donne, il pericolo numero uno si configurava nel mitico morso della tarantola, per cui ricordarne l’incombenza mentre si andava a spigolare, equivaleva a istantaneamente neutralizzare ogni eventuale insofferenza giovanile nei confronti della preghiera; una strategia dall’effetto assicurato, tant’è che spesso, scavalcando lo zelo delle anziane, erano le stesse ragazze a formulare l’abituale ricorso alla mediazione: “E nno nni scirràmu ti Santu Pàulu nuésciu ca nn’à uardàre!”.
Il rosario recitato dalle spigolatrici, infatti, era sempre intercalato – ad ogni posta – di un Pater, Ave e Gloria in onore di San Paolo e concluso con una composizione invocativa che veniva anche cantilenata al momento di entrare nelle stoppie:
Santu Pàulu bbinitittu
scinni a mmiénzu a lla ristoccia
e ccamìna a nnanzi a nnui
cu lla tònica ti razzia.
Ti lu male nn’à ssarvàre
lu mantìle nn’à bbinchìre
nn’à jutàre a lla fatìa
Santu Pàulu accussissìa
Santu Pàulu accussissìa.
Dal quotidiano “LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO”, giovedì 22 ottobre 1998
Bellissima questa ricostruzione ragionata, di più..illuminata, di un tempo andato.
Per chi ha la fortuna degli anni, si possono cogliere cenni di un universo di civiltà contadina che dava dignità a tutti, anche a chi non aveva altro che “spigolar” nei campi falciati, ormai privi del frutto.Peccato che del canto non si riesca a risalire alla musica, almeno io non riesco…non sono neretina.