LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO FINE OTTOCENTO
LU MANTILE
Elemento insopprimibile nell’abbigliamento contadino, il grembiule assolveva a delle funzioni precise, che andavano oltre quelle semplicistiche di tutela del vestito o quelle vanitose di un ornamento, pur tenendo conto della bellezza di alcuni grembiuli da festa, tessuti in casa con fantasiose greche a più colori o addirittura ricamati.
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
(…) Il grembiule aveva un suo significato simbolico, sicché quello che una donna non voleva o non poteva dire a voce, lo esprimeva attraverso i suoi movimenti, le sue pieghe, il modo di indossarlo o sventolarlo. Se una ragazza, sotto lo sguardo insistente di un giovanotto, fingeva di dare un’assestatina al suo grembiule spostandolo sia pure leggermente verso destra, era segno che il giovanotto le era simpatico e che quindi putìa mannàre (poteva mandare), cioè rivolgersi tranquillamente ai genitori per chiedere la sua mano. Lo stesso gesto però, se compito da una donna sposata, o all’indirizzo di un uomo sposato, veniva giudicato indice di lascivia, impudica mossa di adescamento, e come tale capace di suscitare risentimenti e liti. Non per nulla il grembiule veniva chiamato “mmùccia irgògne” (“coprivergogne”) e “pignu t’onestàte” (“pegno d’onestà”): spiombando dalla cintola in giù, fin sotto il ginocchio, lo si considerava idealmente uno scudo posto a difesa delle parti intime, e una contadina onesta, che ci teneva a conservarsi e ad apparire tale, non si permetteva mai di circolare per le strade senza grembiule, poiché sarebbe equivalso a mostrarsi quasi nuda.
Pure se oggettivamente il corpo era già nascosto fino ai piedi dalla voluminosa arricciatura di più gonne sovrapposte, era infatti sempre e solo al grembiule che si affidava l’ufficiale dissimulazione delle forme, ritenendolo una schermatura quasi magica, una specie di cintura di castità capace di rintuzzare ogni eventuale tentazione di sguardo. Indossarlo era come infilarsi le mutande (indumento a quell’epoca pressoché sconosciuto alle donne popolari e totalmente assente dalle liste di corredo) e acquisire, per processo psicologico, una certa libertà di comportamento, in quanto già in partenza si era salve nella pudicizia. E dell’obiettività di questa interpretazione, che potrebbe apparire anche esagerata, si ha la prova rifacendosi a particolari circostanze, in occasione delle quali il grembiule assurgeva a sintesi di vestitura.
D’estate – tanto per fare un esempio -, trovandosi le famiglie accampate in campagna, nei pagliai, private dell’intimità della casa, capitava spesso, nel clima di quella sana allegria che autorizzava a un brioso cameratismo fra gli abitanti dei vari pagliai, di essere svegliati nel colmo della notte perché fatti oggetto di un’improvvisa serenata o di un altrettanto improvvisato scherzo. Svegliati di soprassalto occorreva uscire in fretta all’aperto, senza avere il tempo materiale di infilare pantaloni, allacciare gonne o indossare corpetti, anche perché nei pagliai lo spazio a disposizione era così esiguo da non concedere libertà di movimenti. Per fortuna ciò non creava problemi alle donne: sulla scia degli uomini, che balzavano lesti presentandosi come fantasmi nel biancore dei lunghi carzunètti spicàti (mutandoni confezionati con pesante tela tessuta a spina di pesce), anche loro non trovavano nulla di strano a mostrarsi solo protette dalle ampie e lunghe camìse barbarèsche (camicie avana tessute con cotone barbaresco) purché su queste (che in fatto di copertura erano più di un vestito) avessero avuto modo e accortezza di indossare il grembiule, tenuto, per previggenza, a portata di mano vicino al pagliericcio. A criterio loro, e di chi le stava guardando, erano perfettamente a posto e, se si dava l’occasione, potevano anche ballare la pìzzica pìzzica (la tarantella), tanto lu mantìle nc’era (il grembiule c’era) e un eventuale occhio peccaminoso no llu putìa caurtàre (non lo poteva – allusivamente – bucare). Usbergo da vive e usbergo da morte: essere seppellite senza grembiule era la più temuta delle ipotesi, poiché equivaleva a doversi presentare a Dio in abbigliamento impudico e di conseguenza macchiate d’impurità. Ciò spiega come nel profilarsi di un pericolo – uragano, temporale o scossa tellurica – si aveva premura a indossarlo, nel timore che il fenomeno naturale degenerasse in vera calamità e arrivasse a determinare non soltanto la morte, ma anche, per necessità contingenti, una sepoltura affrettata delle eventuali vittime. “Arménu l’àngilu ti Ddiu cu nni ttròa cu llu mantìle” (“Almeno che l’angelo di Dio ci trovi col grembiule”), dicevano annodandolo in fretta, e aggiungevano: “… e Ccristu cu nni éscia la ‘ntesiòne” (“… e Cristo che ne apprezzi l’intenzione”).
Questo elevare il grembiule a simbolo di santa morte raggiungeva il suo acme nelle morti di parto, più specificamente quando madre e figlio soccombevano insieme prima che quest’ultimo potesse ricevere il battesimo. In questi casi si usava comporre le due salme in un’unica bara, posando il neonato sul ventre della madre e coprendolo con il di lei grembiule, quasi fosse ancora nel grembo. Anche alle mani della morta si dava una sistemazione originale: non si intrecciavano sul petto come quelle di tutti i cadaveri, ma si stendevano diritte lungo i fianchi affinché potessero simbolicamente reggere le due cocche estreme del grembiule, che venivano fermate passandole fra dito e dito. E ciò come supplica, come indicazione specifica al Padreterno che – si credeva – in grazia dell’onestà della madre, rappresentata appunto dal grembiule, non avrebbe condannato al limbo l’anima non battezzata. Una raccomandazione in extremis, tesa a imporre una valenza di meriti indiretti e che, vista nel contesto di un patteggiare fra terra e cielo, poteva suonare arbitraria; al contrario, non deve sorprendere, poiché il suo azzardo era soltanto apparente, in quanto non nasceva come presuntuoso accampare diritti, bensì come richiesta di misericordia. Oltretutto, affidandone il messaggio al grembiule, si attuava, sia pure inconsciamente, uno scavalco del momento, poiché ciò che era strumento a livello oggettivo finiva con l’assurgere a riferimento di una realtà collettiva, tracciando l’identità di un popolo, ossia una condizione di vita (e di morte) che era situazione sociale.
Nel grembiule simbolicamente veniva a raffigurarsi lo spazio agreste, habitat di una classe subalterna abituata fin dalla nascita a mendicare tutto, non escluso il lavoro, visto alternativamente o come dovere da compiere, o come grazia da ricevere. Dovere che, per le donne, si configurava nella sostanza di sfibranti giornate trascorse, dall’alba al tramonto, nel folto degli oliveti a raccogliere, mantilàta rretu mantilàta (grembiulata dietro grembiulata), le olive del padrone sotto lo sguardo severo del fattore, sempre avaro nel concedere soste allo spezzarsi delle schiene. Grazia che, nel suo colmo, tornava ad accendere l’immagine di un grembiule più o meno gonfio di spighe sfuggite alla falce e per contratto vantaggioso concesse all’industriosa spigolatura delle donne, che fra le stoppie, sfidando le punture delle tarantole, le contendevano alla fame delle capre.
Da queste grazie strappate ai padroni alle grazie da impetrare dal cielo il passo era breve, e non occorreva, sia pure in allusivo, mutare recipiente di raccolta. Nessuna meraviglia se in chiesa, durante la recita delle litanie Lauretane, giunte all’invocazione
“Mater divinae gratiae” le mani correvano all’orlo inferiore del grembiule per poterlo tempestivamente sollevare in sincronia con il collettivo espandersi dell’”Ora pro nobis”. Oltretutto il gesto nasceva dalla volontà di mutare in liturgia il quotidiano affanno, affinché si stabilisse una propiziatoria omologia fra attese contadine e speranze cristiane, fra grano che sbuca e Cristo che risorge, fra madre terrena che suda e Madre celeste che dona.
Tendere il proprio grembiule, molleggiandolo a mo’ di coppa, significava porsi in attesa della provvidenza, avere fiducia nella provvidenza, e nello stesso tempo propiziarsela con un atto di umiltà: con tale gesto non ci si uniformava forse al comportamento delle pezzenti, che bussando alle porte o sostando ai crocicchi, più che tendere la mano, preferivano tendere il grembiule? “Mantìle cerca a ssuffraggiu pi’ lli muérti” (“Grembiule chiede a suffragio dei morti”), era la loro formula d’uso; una frase che veniva mutata soltanto durante la settimana santa, quando protendendo il grembiule dicevano: “Mantu ti la Nduliràta pi’ lli pene ti Cristu”. Presentare il grembiule come “Mantello della Vergine Addolorata (che chiede) per le pene di Cristo” conferiva, allo stesso, simbolo di sacralità, tanto da indurre gli offerenti più religiosi a tributargli un segno di bacio prima di deporvi l’obolo. Gesto significativo che toccava financo il cuore dei nobili, i quali, pur essendo refrattari a ogni commistione con gli usi popolari, non esitavano a suggerirlo alle loro donzelle come fioretto quaresimale.
Tutto ciò non deve però far credere che il grembiule fosse esentato dall’esprimere sentimenti meno pii o addirittura intenzioni bellicose. La castigatezza o sboccataggine del suo linguaggio dipendevano, oltre che dalle circostanze, dalla personalità di chi lo indossava, ché lo muoveva a sua misura e costume: come c’era la donna mite che a un rimprovero, magari immeritato, lo segnava di croce a fare intendere che era l’emblema della sua prudenza, il sigillo del suo silenzio, così c’era la donna superstiziosa che, credendo di essere oggetto di uno sguardo malevolo, non ci pensava due volte a raccoglierne l’ampiezza in due cocche e protenderle in avanti a mo’ di corna; o quella ancora più volgare che non si peritava, in occasione di un acceso diverbio, a sollevarlo stizzosamente, intendendo con ciò gratificare la parte avversa di una mossa sconcia, equivalente al “Toh, prenditi questa!” o, più chiaramente, al torcersi sgarbatamente e presentare il posteriore. Altrettanto irriguardoso era il gesto di sventolarlo, sia che lo si facesse ondeggiare in linea orizzontale, sia che lo si scuotesse in senso verticale, cioè dall’alto in basso. Ferma restando la sostanza, cioè il disprezzo, i due movimenti avevano significati diversi: col primo s’intendeva scacciare la persona antipatica o importuna, declassandola al rango di mosca, insetto ritenuto il più molesto e usualmente allontanato, appunto, sventolando il grembiule. Il secondo movimento, al contrario, risultava indiretto, cioè destinato non all’interlocutrice del momento, ma a una persona assente, della quale si stava pettegolando e alla quale si voleva far pervenire, in cifrato mimico, un acidulo “Di te me ne sbatto!”.
Contestualizzato nei significati tipici della cultura contadina, il grembiule si avvaleva infatti di un suo preciso codice, e nello scambio fra emissione e ricezione riusciva a creare la situazione, relazionando meglio e più in fretta delle parole. Un padrone che, arrivando sul fondo, si vedeva venire incontro la contadina con il grembiule arrotolato sui fianchi e fermato alla cintola, capiva subito che la stessa gli si era rivoltata contro e, da ribelle, diciamo pure da maschio a maschio, era pronta a sfidarlo. Punta massima di sfida, atto di estrema sfrontatezza solo paragonabile all’indicibile malacriànza (maleducazione) ti nnu illànu (di un villano [contadino]) che avesse avuto l’ardire di presentarsi a parlare a llu patrùnu (al padrone) tenendo ‘nchiuàta an capu la còppula (inchiodata in testa la coppola). Tanto coraggio, però, i poveri contadini raramente lo avevano, e per far valere le loro misere rivendicazioni trovavano più conveniente far parlare le mogli, le madri, le sorelle, anche perché la frattura generata dal comportamento di una donna risultava sempre accomodabile.
Se la faccenda avesse preso una brutta piega, generando magari lo sfratto dal fondo, si poteva sempre fingersi sdegnato contro la scrianzàta (screanzata) che aveva provocato lu jastimàtu sgarru (il maledetto errore) e convincere il padrone a non tenere conto ti nna cuccuàscia ca canta a mmenzatìa (di una civetta che canta a mezzogiorno, cioè a sproposito), facendo presente che, sia in casa sia sul fondo, li càusi àlinu e nno lli stiàni mmappisciàti (i pantaloni valgono e non le gonne fruste, cioè è da tenere in considerazione la parola dei maschi, non quella delle donnette), giacché la fémmina tene lu capìddhru luéngu, ma lu sensu éte curtu! (la donna tiene lungo il capello, ma corta l’intelligenza!). Che se poi il padrone si fosse mostrato irremovibile, ci avrebbe pensato la stessa donna a sanare il conflitto, buttando con insuperabile maestria acqua sul fuoco.
Le donne salentine avevano nelle vene sangue greco, per trasmissione atavica erano predisposte alla finzione scenica, specie se la stessa comportava ruoli tragici, basati sulla potenza magica della parola e del gesto. La loro vena recitativa istintivamente si scaldava al fiato delle occasioni, e con la stessa efficacia con la quale sapevano farsi valere nel ruolo di vespe arrabbiate, sapevano calarsi nei panni della mortificazione, del pentimento, della sottomissione. Sicché lo screzio, che aveva avuto inizio nella spavalderia di un grembiule arrotolato sui fianchi, si concludeva nel silenzioso spiombo di un grembiule scuro che, in quel caso, oltre a velare il corpo, nascondeva anche le mani.
Nascondere le mani sotto il grembiule equivaleva infatti a una dichiarazione di disarmo, oltre che di umiltà e afflizione; un metaforico regredire negli anni e quasi annientarsi nell’immagine di un’infanzia povera, per la quale il grembiule della madre, e più ancora quello della nonna, rappresentava uno spazio sacro, una specie di marsupio, una provvidenziale tenda sotto la quale rifugiarsi nei momenti di paura, di vergogna, o anche semplicemente di freddo. Sedimentazioni sopravanzate a tempi d’innocenza, per necessità convertite in mediazione dialettica nei rapporti sociali, ma non per questo meno incisive nel loro riproporsi, poiché spesso si innescavano e si configuravano come amari rigurgiti nelle situazioni più scardinanti dell’esistenza, prime fra tutte quelle di lutto. Allora sì che il gesto di nascondere le mani sotto il grembiule nasceva istintivo, poiché a determinarlo non era tanto la convenzionalità di una formula di rispetto, quanto il gelo stesso del trapasso, assorbito come brivido di sconfitta, di totale impotenza di fronte all’ineluttabile transitorietà della vita. E questo sia che la morte fosse cicòra ‘ngnuttùta (cicoria inghiottita), cioè assaporata direttamente attraverso la scomparsa di un proprio caro, sia che si proponesse come fiézzu ti cipòddhra nnanti ll’uécchi (puzza di cipolla davanti agli occhi), cioè avvenimento che portava al pianto per condivisione di pena. Unica differenza fra i due casi, la posizione delle mani: le donne direttamente interessate al triste evento se le adagiavano sul grembo, piuttosto in basso, appaiate come ali e in posa di abbandono, quasi fossero inerti. Le altre le intrecciavano a simbolo di preghiera, mantenendole alte, subito dopo la cintola, e protendendole in avanti, il che le faceva emergere da sotto la velatura del grembiule a guisa di misteriose pigne.
Posizione quest’ultima assunta non soltanto durante le veglie funebri o in occasione di visita nelle case in lutto, ma anche al passaggio di un funerale, a meno che non si trattasse del transito di un uomo ritenuto indegno di rispetto o, peggio ancora, delle esequie di una donna giudicata leggera, nna svirgugnàta insomma, per la quale non c’era condivisione di pena e all’indirizzo della quale impietosamente si diceva “No tti tocca salùtu ti mantìle” (“Non ti spetta saluto di grembiule”). Giudizio sommario che il più delle volte era stato pronunciato in occasione della veglia funebre o addirittura durante la vestizione della morta, alla quale era stato contestato e magari negato il privilegio di presentarsi all’altro mondo con il grembiule, ché in quel caso – si diceva – sarebbe stato no ggiustu mpellu (non giusto appello) alla misericordia divina, ma ‘nfamitàte ti buscìa (bugia infame).
Vissuta nella pietà o nell’astio, nel cordoglio o nel pettegolezzo, la morte era cronaca di ogni giorno, trafiletto paesano delineato dal suono delle campane, la cui voce, oltre a conferire spessore al rito di sepoltura, concorreva a richiamare l’attenzione sull’accadimento.
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Questo contributo è tratto dal volume “Tre Santi e una Campagna, Culti magico-religiosi nel Salento fine Ottocento”, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, 1994 (Capitolo “Li fronne ti Santu Cristòfuru”, pagg. 294-300).
Ottimo e interessante argomento per me quasi ignoto. E’ proprio vero, non si finisce mai d’imparare. Complimenti all’autrice.