di Emilio Panarese
Nella monografia «Maglie» che pubblicai nel 1995 vi sono verso la fine due lunghi capitoli di circa 80 pp., il 16° e il 17°, dedicati interamente alle tradizioni ed al costume popolare di Maglie, al suo arcaico dialetto ed alla sua vasta letteratura. Scrivendo di questa nutrita letteratura, ho cercato di mettere nel dovuto risalto il poderoso e rilevante contributo che ad essa ha dato continuamente Nicola De Donno con un grande salto qualitativo, con grande competenza e professionalità, sia a livello di trascrizione di testi, sia a quello di invenzione poetica sia a quello, pure assai significativo, di critica e di saggistica.
La pubblicazione della trascrizione fonetica con traduzione in italiano dei sessantacinque racconti popolari magliesi/salentini contenuti nel suo libro «Li cunti te la nonna», stampato nel 2000 col patrocinio del Comune di Maglie dalle Grafiche Panico di Galatina, completa in modo esemplare il dignitoso edificio del nostro dialetto e della nostra letteratura che egli ha ricostruito e restaurato in più di cinquant’anni di instancabile lavoro con ammirevole cura ed infinita pazienza.
Cominciamo dal titolo: «Li cunti te la nonna». Cuntu è parola antica e letteraria, già presente in documenti italiani del ‘200. È un deverbale di contare, che deriva dal latino computare, ‘calcolare, contare’. Dal verbo computare al sostantivo computus e, per sincope, a comptu / contu /cuntu, che ha anche il significato di ‘narrare, novellare, raccontare’. Nell’accezione della parlata magliese cuntare vuol dire innanzitutto ‘parlare’ ma tale significato non si ritrova nei dizionari dialettali del Rohlfs e del Garrisi mentre contare nel senso di ‘raccontare’ è riportato oltre che nel ‘Dizionario etimologico’ di Cortelazzo e Zolli, citato da De Donno nell’Introduzione del libro, anche in altri dizionari: in quello etimologico di Battisti-Alessio, nel Gabrielli, nel Garzanti, nel 2° dei sei volumi del ‘Dizionario dell’uso’ del De Mauro, nel ‘Grande dizionario della lingua italiana’ del Battaglia. Quasi tutti riportano il verso del Carducci: “Me la conti, nonna, la novella?”.
Complessivamente questi racconti sono 65: 11 furono pubblicati circa 130 anni fa dal direttore Pietro Pellizzari su ‘Lo studente magliese’, 47 vennero periodicamente stampati su ‘Tempo d’Oggi’ dal 1975 al 1980 nella rubrica ‘Li cunti te la nonna’ a cura di Nicola De Donno, mentre i restanti sette sono inediti. Parecchi di questi racconti Nicola li apprese dalla viva voce dei genitori Camillo e Rosa, altri da alcuni suoi alunni.
Si possono dividere in tre grandi gruppi: favole, fiabe, racconti. La favola – come tutti sanno – è un breve racconto con insegnamento morale in cui agiscono e interloquiscono in genere gli animali. La fiaba, invece, è un racconto fantastico, un’astrazione della mente, un’ invenzione di origine popolare in cui ha parte predominante il meraviglioso e come protagonisti gli uomini. Le fiabe di questo libro si possono suddividere in tre gruppi e sottotitolare ‘Cunti te lu nnanniorcu’ , ‘Cunti te lu scazzamurieddu’, ‘Re e regine’. Anche i racconti si possono suddividere in gruppi: uno ‘Monaci e massari’, l’altro, più generico, ma più ricco, ‘Uomini e cose’.
Fiabe, favole e racconti sono di solito il risultato di varie sovrapposizioni, di innumerevoli varianti e interpolazioni. Tutti portano le tracce della storia passata, del sentire, del costume popolare di varie regioni italiane. Quel che cambia di regione in regione, di paese in paese, è l’ambiente in cui i personaggi vivono, in cui si svolgono le loro vicende e, soprattutto, il codice linguistico popolare, il sermo plebeius che essi parlano e che li caratterizza.
In alcuni di questi cunti, illustrati da vivaci schizzi e da umoristiche vignette di mio fratello Domenico, ho notato, rispetto all’edizione di ‘Tempo d’oggi’, delle varianti, delle correzioni, delle aggiunte. Non c’è da stupirsi: racconti cristallizzati che restino immobili nel fluire del tempo non esistono. Come avviene per le tradizioni, ogni generazione, ogni individuo porta il suo piccolo contributo di novità con una continua reinvenzione secondo le mutate esigenze dei tempi nuovi. Essi vivono solo se si rinnovano, si completano, si amplificano con l’aggiunta di motivi archetipici del nostro inconscio collettivo. Raccontati da una persona dotata di fantasia e di talento, possono esteticamente e stilisticamente di gran lunga migliorare. Essi non sono altro che l’antico rito che sopravvive, modificandosi attraverso i secoli; parole antiche e parole nuove, come una ripetizione dell’antico ritmo della vita.
Questi cunti te la nonna, essendo ancorati alla realtà quotidiana dei proverbi e dei modi di dire del dialetto, sono preziosi documenti delle forme di vita di un nostro passato difficile e doloroso, appena appena venato dalla speranza di una vita migliore. Il contenuto è spesso didascalico: in un mondo di furbi e di violenti, di bravacci e di prepotenti i poveri ingenui o ritardati restano inesorabilmente emarginati e ghettizzati, secondo il ben noto proverbio popolare <Ci pécura se face, lu lupu se la mangia>. Sono racconti, che si innestano alla grande tradizione fiabistica di origine araba, diffusa nel Salento attraversola Sicilia, nei quali, più che i contenuti, conta il piacere di raccontare, di reinventare continuamente, di ascoltare.
Ed ora veniamo al codice linguistico e al dialetto di Maglie. Il dialetto è nato per l’oralità, non per la grafia, per la scrittura; o meglio: la grafia è importante sì, ma è un lusso, un lusso che solo pochissimi si possono concedere, un lusso che si paga in sonanti monete d’oro, perché richiede tanta attenzione, tanti accorgimenti tecnici, tante competenze linguistiche specifiche e tanta, tanta cultura. Il dialetto scritto secondo le norme della trascrizione fonetica è lingua difficile. In un paese del Sud d’Italia, bene o male, tutti lo parlano, pochi lo sanno leggere (intendo senza balbettii, senza ripensamenti e ritornelli), solo pochissimi, tre o quattro, lo sanno scrivere bene. Perché, quando il dialetto si mette dietro un tavolo e prende la penna in mano, diventa rigoroso, esigentissimo, molto di più dell’italiano, perché il dialetto scritto ha il chiodo fisso di far coincidere ortografia ed ortoepia, perché vuole a tutti i costi livellare scrittura e pronunzia. In italiano, invece, spesso si scrive in un modo e si pronunzia in un altro.
Come quasi tutti i dialetti salentini il dialetto di Maglie è un dialetto romanzo o neolatino, che continua, sin dalla fine delle guerre annibaliche, la lingua ‘volgare’ di Roma (non nel senso figurato spregiativo, ma nel senso letterale cioè parlato dagli strati meno colti della popolazione, dal volgo : sermo vulgaris o plebeius ). Un dialetto che conserva ancora qualche raro vocabolo del greco antico, forse filtrato dalla colonia greca di Taranto, e parecchi lessemi medievali neogreci. Semplificando si può affermare, in grosso modo, che il 68% di questo nostro dialetto è di fondo latino, il 20% di matrice neogreca e grica e il restante 12% costituito da diversi prestiti di altre lingue assorbiti in tempi diversi e manipolati in vario modo (arabismi, francesismi, ispanismi, germanismi ecc.) e da neologismi tecnici dialettizzati, oggi in crescente aumento.
Il dialetto di Maglie è un dialetto piacevole, arguto, armonioso, ricco e vario “sta palora majese sicca e rricca / ca prute e cchiange, ca carànfa e llicca” [Nicola De Donno]; “ la stretta arguta favella/ del mio paese di Maglie, gaia vinifera / terra, gemma del forte Salento” [ Francesco Negro]. Un dialetto arcaico, di cui la nostra illustre concittadina Maria Corti loda la ‘corposità splendida’ e che, da esperta semiologa, giudica «tra i più carichi di tempo e di vocazione fonica […] nutrito, com’è, di latinismi lessicali e morfosintattici, come un pendolo linguistico, che il tempo ha fermato».
Le varietà del tessuto stilistico e il carattere spiritoso, brioso, faceto del dialetto di Maglie sono stati pure ben messi in luce dallo scrittore Italo Calvino. Calvino, grande maestro del favoloso, prestigioso riscrittore di racconti italiani, a proposito dei cunti magliesi (trascritti dal Pellizzari ne ‘Lo studente magliese’), così scrive nell’ «Introduzione» dei suoi due volumi di «Fiabe italiane»: «Otto cunti tra i meglio raccontati che abbia visto sono quelli in dialetto magliese del libro di Pietro Pellizzari, ’Fiabe e canzoni popolari del contado di Maglie in Terra d’Otranto’: tipi notissimi, ma in una lingua così spiritosa, in una recitazione così goduta, un piacere della deformazione grottesca, che paiono storie nate così, apposta per quel tessuto stilistico come il bellissimo ‘I cinque scapestrati’, la cui trama invece troviamo punto punto nel Basile».
Pensate: tra tutte le fiabe della Puglia, Calvino ne scelse sette: una di Taranto e ben sei degli undici racconti di Maglie del Pellizzari, tralasciando le raccolte pugliesi del Gigli e del La Sorsa che, essendo state scritte in italiano, gli sembravano poco attendibili.
Grande è l’importanza di questi testi dialettali scritti magliesi, non solo per l’aspetto fono-morfo-sintattico-lessicale, ma anche per quello stilistico, per la ricchezza delle voci greche e latine, per il ritmo melodico del racconto e i tanti modi di dire fiabeschi, impreziositi da elementi folclorici locali come nel picaresco racconto de I sei scapestrati, sopra ricordato, il cui protagonista aveva lasciato i genitori che abitavano a Mmaje a nna casa de ‘nnanzi la culonna o come in un altro racconto: Sciati a Mmaje, ddai ‘lla via de menzu e ppurtàtime a Caterina tignusa.
Nei cunti possiamo leggere il senso di angoscia per certe frustranti condizioni di vita, il desiderio di evasione della madre salentina dalla dura realtà quotidiana, la sua aspirazione, duramente impossibile, ad una vita serena e felice. Così quel lumicinu luntanu luntanu nell’oscura notte o il lungo faticoso andare e ccamina e ccamina e rrivàu ‘ntra nnu bboscu, in mezzo al quale c’è nu palazzu chinu de bbronzu, d’argentu e dd’oru, quella rituale e magica ricorrente domanda: ‘ Teni forficicchie e fforficioni pe’ ttajare pignulicchi e ppignuloni?’, la sconcertante disumanità del Nnanniorcu antropofago o la malvagità delle vecchie streghe-macàre o le immagini paurose di antiche ninne-nanne con lupi e mostri, nelle quali appaiono segni di disperati lamenti della madre prigioniera e schiavizzata col suo dramma quotidiano di miseria e di duro lavoro, che cos’erano se non riflessi, a livello subconscio, di una spossatezza esistenziale, che altro se non riflessi di quel che di oscuro e di misterioso aveva in sé quella vita di stenti e di sofferenze? Così d’altro canto la lieta descrizione, ricca di particolari, in questi cunti, dello scintillante palazzo incantato o la lieta fine di un racconto pauroso [e stannu ncora belli e ccuntenti e sse nu crititi, šciati a ddai ca li vititi] o certe fantasticherie [nu fazzulettu chinu chinu de turnisi], cos’erano se non il desiderio di vivere una realtà diversa, di evadere da una vita di dolori e di incertezze?
Le ninne-nanne e i cunti, quindi, non assolvevano solo al compito di quietare o di addormentare il neonato o di intrattenere il fanciullo col racconto, ma offrivano alla donna, alla nonna narratrice, una rara occasione di sfogo, la libertà di creare, d’inventare, di plasmare una realtà diversa da quella squallida di ogni giorno. Sfogo e libertà che, all’interno di una società conservatrice come la salentina ed in un’economia povera come quella contadina, potevano realizzarsi solo a livello di evasione col canto o col racconto. Evasione, ma anche presa di coscienza di un destino doloroso, pianto antico, che si asciugava soltanto nella sfera della fantasia.
Bellissime immagini!!
come tante altre del resto.
Peccato che non siano corredate da una didascalia…
un ricordo antico che affiora dal passato .♡♥♡♥♡♥♡
Questo enigma da dove è stato tratto? 12 mesi all’anno 11 perché?Se la luna è quintadecima perché spezzata e’? E lu ncartatu perché si trova scartati e de 4 ne su rimaste 3?