di Massimo Vaglio
L’aguglia, è un pesce che in genere non gode, gastronomicamente parlando, d’univoca considerazione, ma in alcune località rivierasche è tenuta in alta, e a mio modesto avviso giustificata, considerazione.
Nella marina di Nardò, in particolare, era praticata, ed è tuttora praticata da qualche nostalgico, una forma di pesca tradizionale, utilizzando “lu kuenzu ti l’àcure”, un caratteristico pàlamito a vela appellato anche “kalòma” in altri distretti meridionali.
Per praticare questa pesca si doveva essere profondi conoscitori delle poste, dei venti e delle correnti, pena l’infausta perdita dell’attrezzo che era costato, denaro, e diverse giornate di certosino lavoro. Questa, più che una forma di pesca, era un rito che iniziava con l’armatura dell’attrezzo cui ognuno apportava personali quanto segrete modifiche. Era un rito pure la ricerca dell’esca, che doveva essere costituita da latterini freschissimi e preferibilmente dalla specie appellata “trenula longula” o “gentile”, che generalmente veniva pescata torpedinandola a suon di “trunetti”, ossia con delle piccole bombe, confezionate con tritolo e spoletta, pratica, inutile dirlo, particolarmente pericolosa e vietata.
Il periodo in cui si esercitava questa pesca andava dalla Madonna del Carmine, 16 luglio, a San Martino, 11 novembre. Il via lo dava Zambo, un personaggio piccolo, tarchiato, nero e con dei tratti somatici simili a quelli dei negritos che animano i fumetti di Corto Maltese. Costui, si dedicava per mestiere a questa pesca e appena compariva davanti ai leoni della chiesa del Carmine con le prime reste d’aguglie infilate con il giunco, la stagione di pesca era ufficialmente aperta.
Il teatro di quest’attività, che veniva praticata quasi esclusivamente dagli scogli, andava dalla Reggia, nella marina di Galatone, che costituiva il limite meridionale, alla Forca, nei pressi di Torre Castiglione, che segnava quello settentrionale.
In questo tratto di costa, lungo una trentina di chilometri, esistevano qualche decina di poste, che altro non erano che dei tratti di scogliera non troppo alti da cui si aveva un affaccio diretto sul mare profondo. Le poste più ambite erano quelle di “Nsirragghia” che ospitava la mitica “Posta Mancina”, quelle di “Paritone”, nei pressi di Torre Squillace, meglio nota come “Torre ti Scianuri”, e quelle comprese tra Torre Lapillo e Torre Castiglione, fra cui le famigerate “Poste ti lu Bumbinu”.
I pescatori raggiungevano questi luoghi come meglio potevano, a bordo di cicli, lambrette ed auto che spesso rimanevano in panne lungo i dissestati tratturi: con la coppa dell’olio spaccata, qualche balestra fuori uso o perché si impantanavano.
Ogni pescatore aveva le sue poste preferite che sceglieva a seconda della direzione da cui spirava il vento. Ognuno inoltre aveva le sue fisime sulle modalità di armamento del pàlamito. Vi erano a proposito diverse scuole di pensiero e tra i vari caposcuola risaltavano due personaggi veramente creativi: Uccio Tondo, poeta e cantastorie popolare con la passione delle aguglie e Memmo Romanello, personaggio eclettico quanto originale, già sottoufficiale di marina, reduce del naufragio di Capo Matapan, orologiaio e apicoltore, ma che esprimeva il meglio di sé nel praticare tutte le forme di pesca sportiva allora conosciute, anche se non apprezzava particolarmente alcun piatto di pesce all’infuori, appunto, della “pastina cu lu sucu di àcure” da cui, la predilezione per questa pesca.
Gli attrezzi, erano anche un po’ fonte di vanità, per cui dovevano ben figurare già quando si trovavano nelle ceste ben raccolti in spire. Particolare cura era tributata anche nella preparazione della vela, che era confezionata generalmente in sgargiante tessuto da fodera rosso. Il più bel palamito che io abbia mai visto lo aveva confezionato un vecchio lupo di mare per mio zio Dino che ne perdeva almeno due all’anno: era in cordoncino viola sottilissimo con dei sugheri piccoli e perfettamente sagomati a sezione ottagonale. Lo ricordo benissimo, anche se è passato quasi mezzo secolo, perché contrastava in modo impressionante con quello di mio padre che aveva il trave costituito da una dozzinale treccia di nylon da imballaggio ed i galleggianti costituiti da normali turaccioli di sughero interi, ma che, pur non rispondendo allo standard codificato di nessuna referenziata “scuola”, pescò, nella sua lunga carriera, migliaia d’aguglie.
Di questa gloriosa pesca, ora resta solo il ricordo di grandi spacconate e piccole diatribe tra pescatori, in oziose giornate trascorse in compagnia di sparuti “salinieri”* e “pitanti di mare”**, ultimi rappresentanti di una specie in via d’estinzione, l’uomo libero.
*contrabbandieri di sale
**poverissimi pescatori a piedi.