di Armando Polito
A volte le parole dialettali riaffiorano dai meandri della memoria con tutti i rischi connessi, specialmente quando, come me, si ha una certa età…
Da mia madre ho sentito spesso il nesso del titolo, ma mai in tanti anni, stranamente, ho avuto la curiosità di approfondirne l’etimologia. Poi, qualche minuto fa, qualche bizzarra (ma fino ad un certo punto, per quello che dirò…) sinapsi me lo ha fatto ricordare e ne parlo anche perché sarei grato se qualche lettore me ne confermasse l’esistenza,
Il suo significato è inequivocabile, indicando uno stato fisico molto, ma molto precario. La definizione mi aiuta notevolmente nel tentativo di individuare l’etimo di quelli che appaiono come due participi passati in funzione aggettivale, altrimenti sarei stato costretto ad affermare che certo è solo quello della congiunzione… e il lettore interessato a questi temi avrebbe avuto tutto il diritto di sbottare: -E mi scomodi per tutto questo?-
Potrei supporre che ‘ntrasciulàtu significhi alla lettera affetto da antrace o carbonchio, che, come tutti sanno, è un’infezione acuta (non curata è per lo più mortale) provocata da un batterio. Antrace è dal greco àntrax che significa carbone; infatti la malattia procura lesioni cutanee di colore nero. Lo conferma il sinonimo carbonchio, dal latino carbùnculu(m), diminutivo di carbo/carbonis=carbone. Un dettaglio fonetico, però, suscita in me qualche perplessità sulla quale tornerò dopo.
‘Ntraccatùtu credo che derivi per epentesi di –r– (indotta dallo stesso fonema della voce precedente) da un precedente ‘ntaccatùtu, a sua volta da ‘ntaccàtu (alla lettera intaccato) ma rimodellato con un ulteriore suffisso forse per influsso di ‘nsaccarùtu=arso di sete.
Non sarei corretto, però, se non motivassi la parziale bizzarria della sinapsi interessata. In realtà stavo pensando alle voci dialettali che potrebbero essere usate per definire la nostra precaria situazione attuale, purtroppo non solo economica e così, amara consolazione, ho preso due piccioni con una fava perché il tutto mi ha consentito anche di pensare ad affetti materialmente perduti ormai da parecchi anni.
Tornando al carbonchio: il “pericolo di contagio in zona euro” è una litania quotidiana ma la cosa più grave è che la nostra salvezza dovrebbe, chissà perché, stare nelle stesse mani degli “untori”. È come se si pretendesse di curare la tubercolosi iniettando nel malato una bella dose di streptococchi (nel loro pieno vigore, non attenuati… nella speranza che il povero sistema immunitario faccia la sua parte).
Ma c’è un’altra frase imperante che chi conosce le figure retoriche chiamerebbe ossimoro (in poesia non ha mai fatto danni, anzi…): “coniugare il rigore con la crescita”. Sarebbe come pretendere di accoppiare con successo un elefante con una topolina, tant’è che il risultato è un’espressione cara, questa volta, alla sinistra: “macelleria sociale”.
Lascio immaginare, a chi ha avuto fin qui la pazienza di seguirmi, chi sarebbe, fuor di metafora, la topolina…
Purtroppo anche nel caso che le mie etimologie fossero discutibili o addirittura errate, poco, anzi nulla, cambierebbe in concreto del nostro stato. Lo dico chiarendo la perplessità fonetica di cui parlavo all’inizio e il lettore si prepari ad una raffica di condizionali.
La difficoltà di spiegare il passaggio –ce– di antrace in –sc– di ‘ntrasciulatu (in cui –ul– potrebbe essere giustificato da un diminutivo antràculum, quasi un gemellaggio con carbonchio da carbùnculum) potrebbe indurre a pensare che le due voci in questione siano state mediate dal mondo contadino. E se per ‘ntraccatùtu viene in mente l’aratura, per ‘ntrasciulàtu potrebbe essere tirata in ballo l’erpicatura. Tràgula chiamavano i latini un tipo di giavellotto, ma la voce è usata da Varrone Reatino (I secolo a. C.) proprio col significato di erpice. Non c’è da meravigliarsene, tenendo conto che tragos (voce di origine greca ad indicare più di una specie vegetale) è in Plinio il nome di una pianta spinosa e tràgula può esserne comodamente il diminutivo; basta guardare l’erpice antico in basso riprodotto (non a caso nel dialetto neretino l’attrezzo, alle origini costituito proprio da un insieme di rami spinosi tenuti insieme e aderenti al terreno da una pietra piatta sovrapposta, si chiama tràgghia).
E il pensiero va a quando, ragazzino, assistevo alla pulizia del camino operata da mio padre e mia madre. L’uno saliva sulla terrazza e dal comignolo calava una corda al cui punto mediano l’altra, sotto la cappa, legava una pianta di spinarùta (ginestra spinosa, Calycotome spinosa L.); poi entrambi con una decina di saliscendi ripulivano dalla fuliggine la canna fumaria. Oggi gli spazzacamini sembrano tanti astronauti e la spinaruta è stata sostituita da aggeggi ipertecnologici sulla cui efficacia nutro più di un dubbio…
Pongo fine a questo attacco di senile nostalgia e riprendo il discorso. Da tràgula si può essere formato il verbo *tragulàre, dal cui participio passato [*tragulàtu(m)] con prostesi della preposizione in (*intragulàtu) e successiva aferesi (‘ntragulàtu), attraverso un intermedio *‘ntrajulàtu si è arrivati finalmente a ‘ntrasciulàtu, come a sciùmbu (=gobbo) si è giunti da un latino gibbus attraverso un intermedio *jumbus.
Qualcuno dirà: -Meglio l’erpicatura del carbonchio!-. Sì, ma quella operata sulla terra dopo l’aratura produrrà i suoi frutti; sarà così anche per l’aratura ed erpicatura che stiamo subendo noi e, a quanto pare, non solo noi?…
* Mi ha detto che queste crocchette mi devono bastare per tutta la giornata, ma con gli altri si vanta dicendo che, siccome ho appena un anno, dovrò ancora crescere!!!