di Armando Polito
Ho avuto occasione qualche giorno fa di leggere un questionario delle prove INVALSI somministrato (mai minestra, neppure gli alimenti scaduti e rimessi in commercio che ogni tanto i NAS scoprono, fu più sofisticata…) quest’anno e sono giunto alla conclusione che, se ancora avessi insegnato, avrei da tempo (dal tempo, appunto, della prima somministrazione INVALSI) perso il posto, dopo aver trascorso con i miei ragazzi una giornata indimenticabile per me e per loro, anche se per motivi diametralmente opposti…
Alla lettura dei quesiti proposti si è puntualmente rinnovato il dilemma che mi assale quando mi trovo davanti ai test in genere (li odio, è vero, ma non so resistere alla curiosità di vedere fino a che punto si può arrivare): sono io l’imbecille o è pazzo chi ha preparato le domande e, cosa ancor più rilevante, le fatidiche risposte tra le quali bisogna scegliere l’unica esatta (o presunta tale)?.
Sui test, che con le loro croci ho già avuto occasione di definire come il cimitero della cultura e che pretendono di valutare, con l’alibi dell’oggettività, scientificamente, dunque razionalmente, un fenomeno in cui la componente razionale, forse, è quella non preponderante, altro non dico se non che l’estensore (ma dietro ci sono gli esperti e i consulenti…) di quelle prove magari sarà tra coloro che più rabbiosamente si scagliano contro quei medici rei, secondo loro, di considerare il malato solo un caso clinico o, peggio, un numero di cartella.
Non vorrei, però, che l’accusa di pazzia si ritorcesse contro di me, dal momento che l’aggancio con l’aulico titolo non sembra ancora arrivare. Eccolo: che esito darebbe oggi una domanda che chiedesse solo la paternità di quelle parole con possibilità di scelta tra: a) un campione ciclista scalatore, bravo ma soggetto a bisogni improvvisi…; b) un presidente della repubblica che nel luogo di lavoro (?) ama stare in solitudine a curare le rose del giardino interno; c) Giacomo Leopardi?
-Sì- dirà qualcuno -la risposta c riscuoterebbe il minor successo-; e Di Pietro: -Che ci azzecca tutto questo con Spigolature salentine?-. Come se la vita, e dunque anche la cultura, fosse fatta di compartimenti stagni…
Per convincere il buon Di Pietro prenderò in considerazione una sola parola, l’ultima, del titolo.
Siepe è dal latino saepe(m)=siepe, recinto, sbarramento, ostacolo, luogo chiuso, connesso con il verbo saepìre=chiudere, cingere, sbarrare. Dal suo participio passato neutro (saeptum) con valore sostantivato è derivato l’italiano setto. A questo punto chiunque potrebbe pensare che da setto è derivato settore, come, per esempio, il letterario rattore (nella lingua comune rapitore) è dal latino raptòre(m) a sua volta da raptu(m), sostantivo a sua volta derivato da raptum, participio passato di ràpere. È evidente come nei due casi appena prospettati l’esito –tt– nascerebbe per assimilazione da –pt-.
Ho avuto altre volte occasione di affermare che nella lingua il principio della economicità va a farsi benedire e ciò avviene, secondo me, perché in essa la componente razionale non è dominante. A questo punto non posso far notare come questa situazione, paradossalmente, non ha procurato grossi danni all’umanità, a differenza della sublime razionalità (oltre che buona fede…) di certa economia e, in campo scolastico, di certe scelte, anche economiche, e criteri di valutazione che ci hanno portato alla situazione attuale…
Tornando a noi: cosa impedisce di supporre che setto sia il padre di settore, vista la congruenza formale ma anche semantica (concettualmente il settore corrisponde ad una delimitazione di una parte rispetto all’intero)?
Nulla, se non il fatto che in latino esiste raptòre(m) ma non saeptòre(m); esiste, però, sectòre(m) che è da sectum, participio passato di secàre=segare. A questo punto appare chiaro che qui l’esito –tt– deriva, sempre per assimilazione, da un originario –ct– e non –pt-. Dunque, settore non è figlio di setto, e anche quella congruenza semantica prima invocata ci appare più sfumata (il concetto di delimitazione non corrisponde perfettamente a quello di taglio).
Ma Di Pietro incalza: -Se è vero come è vero che tutte le parole fin qui esaminate sono italiane, che ci azzecca tutto questo con Spigolature salentine?-.
La sua irruenza è senza dubbio giustificata dall’ignoranza del nostro dialetto. Probabilmente, se l’avesse conosciuto, avrebbe aspettato la mia conclusione (e se non fosse arrivata avrebbe avuto tutto il diritto di andare in escandescenze), che è questa: in dialetto neretino per definire una barriera naturale vegetale come la siepe si usa la voce sipàle, che non è altro che una forma aggettivale sostantivata della siepe immortalata ne L’infinito che, come risulta dalle prove INVALSI, secondo la maggior parte degli studenti italiani (per quelli africani e cinesi le cose stanno diversamente…) è un’opera mai terminata di un autore sconosciuto; pare, comunque, che fosse un astronauta (anzi un’astronauta, non per la par condicio ma perché, nel dubbio suscitato dalla desinenza in –a, è meglio che l’apostrofo ci sia…) del XIII secolo…
Ecco la differenza di un’ epoca che favoriva il merito e premiava il migliore e il nostro mondo politicamente (e sembra fuori luogo il proprio nome) corretto che esalta la mediocrità.