di Marco Cavalera
Le origini di Vitigliano (frazione di Santa Cesarea Terme) risalgono alla fase ellenistica dell’età messapica (2400-2300 anni fa), quando il suo territorio gravitava intorno all’importante città fortificata di Vaste, situata a 1,5 km in direzione Nord-Ovest.
Vitigliano si trova lungo l’antica strada che da Vaste conduceva a Castro, che in età imperiale e tardo antica rivestiva un importante ruolo di approdo di riferimento per la rete di insediamenti rurali sparsi nell’immediato entroterra.
Il tracciato viario lambiva la sommità di una collina dove, a seguito di indagini topografiche condotte dall’Università di Pau et des Pays de l’Adour (Francia) – coadiuvata dal Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Lecce – sono state rinvenute tracce di frequentazione di età tardo romana, attestate dalla presenza di numerosissimi frammenti di ceramica, sparsi in un’area estesa circa 1 ettaro e mezzo.
I reperti raccolti sono riferibili a recipienti in ceramica comune, a manufatti da mensa, lucerne e anfore da trasporto di produzione africana, anfore di provenienza greco-orientale ed egiziana e macine in pietra lavica[1].
L’insieme dei materiali rinvenuti permettono di datare l’insediamento tra il III e il VI secolo d.C.[2]
Ai piedi della medesima collina, nella periferia nord-occidentale del paese – pochi metri a nord dell’incrocio tra la via Extramurale Nord e via Cazzanoci – si nota una vecchia e arrugginita inferriata che delimita una cisterna monumentale (localmente nota come “cisternale”). La struttura, scavata nel banco di roccia fino ad una profondità compresa tra i 4,30 metrie i 4,45 metri, è lunga 12,30 metri, larga 3,05 metri ed è in grado di contenere oltre 162.000 litri di acqua.
La cisterna si caratterizza per la presenza di una copertura costituita da lastre di pietra calcarea, che poggiano su quattro colonne, ognuna delle quali sormontata da un capitello a forma di piramide rovesciata. In origine i monoliti erano 36 ma, attualmente, se ne conservano meno della metà (16), che presentano le seguenti misure: lunghezza compresa tra 1,94 e 2,60 m., larghezza tra un metro e 0,50 m. e spessore tra 35 e 40 cm[3].
I pilastri (costituiti da 4/5 blocchi ciascuno) non presentano tracce di intonaco e si sviluppano su un plinto parallelepipedo di calcarenite che si innesta sul fondo della vasca. Un dettaglio degno di nota è la presenza – presso l’angolo sud-occidentale dell’apertura del serbatoio – di due gradini e altrettante cavità circolari tagliate nel banco di roccia. Il monumento, quindi, veniva alimentato dalle acque di deflusso pluviale per mezzo di canali di scolo ancora visibili sul piano roccioso e, molto probabilmente, anche da qualche falda acquifera sotterranea.
La tecnica di costruzione (pilastri, architravi e lastre di copertura) ricorda quella tipica romana dei “criptoportici”. La sua monumentalità è dovuta al fatto che la preziosa risorsa idrica non serviva solo un ristretto nucleo familiare, ma una grande comunità rurale che viveva di allevamento e agricoltura e che esportava i propri prodotti agricoli in tutto il bacino del Mediterraneo[4].
L’opera idrica è stata oggetto di interpretazioni più svariate, a partire da Cosimo De Giorgi che ipotizzò una duplice funzione di sepoltura (prima) e di cisterna (dopo), datandola “ad un tempo molto antico e forse anteriore a quello nel quale fiorirono le nostre città messapiche”[5]. Pasquale Maggiulli attribuì la costruzione “all’alba della nostra civiltà, cioè di quella del ferro”. Secondo lo storico di Muro Leccese si trattava del più antico ipogeo della Terra d’Otranto, riutilizzato solo successivamente come cisterna[6]. L’archeologo Adriano Prandi, in tempi un po’ più recenti, ritenne la struttura un deposito di acqua di età romana, per la presenza di uno spesso intonaco impermeabile di cocciopesto e per la misura in piede romano (pari a 29,5 cm) dei blocchi di copertura[7].
La cisterna garantiva un costante approvvigionamento idrico – anche nei periodi di siccità – alla rete di insediamenti rurali ubicati nel territorio compreso tra Vaste, Vitigliano, Vignacastrisi ed Ortelle, dove le ricerche archeologiche di superficie hanno dimostrato l’esistenza di numerosi siti di piccole e medie dimensioni, fioriti tra la media età imperiale e l’età tardo antica.
L’esistenza di vasche di grandi dimensioni utilizzate per la raccolta di acqua piovana caratterizzava lo spazio interno di un insediamento rustico romano e conferma la centralità assunta dal problema dell’approvvigionamento idrico in campagna. Grandi cisterne, nei pressi di insediamenti produttivi agricoli di età romana, sono state individuate nel tarantino (Masseria Fontana), nel brindisino (Masseria San Giorgio) e nel Salento (recentemente Morciano di Leuca, località Concagnane)[8].
Concludo la breve disamina con un appunto personale che riguarda lo stato di abbandono in cui versa il monumento megalitico di Vitigliano: l’assenza di un pannello informativo o di una semplice segnaletica di avvicinamento o indicazione del “cisternale”, la presenza di vegetazione infestante e di rifiuti all’interno della vasca contribuiscono al degrado della struttura, che invece andrebbe tutelata, protetta e valorizzata come bene culturale conosciuto da tutta la comunità locale e non solo dagli addetti ai lavori.
L’incuria e la scarsa attenzione, che interessa non solo la cisterna di Vitigliano, ma la gran parte delle evidenze archeologiche del Salento, portano all’oblio della propria identità storica, senza contare le potenzialità turistiche questi beni potrebbero esprimere se adeguatamente promossi al pubblico e valorizzati nel modo in cui meritano.
[1] Tra la ceramica rinvenuta, si segnala la presenza della cosiddetta Sigillata focese (Late Roman C), anfore di produzione africana (Africana II, spathia) e di produzione orientale (Late Roman 1 e 2).
[2] Auriemma R., Salentum a salo. Porti, approdi, merci e scambi lungo la costa adriatica del Salento. Volume primo, pp. 266-267, Galatina 2004.
[3] Panareo E., Il cisternale, in Apulia, giugno 1980 (http://www.bpp.it/apulia/html/archivio/1980/II/art/R80II025.html).
[4] Belotti B., La citerne de Vitigliano, in Studi di Antichità 7, pp. 251-265, 1994.
[5] De Giorgi C., La provincia di Lecce. Bozzetti di Viaggio, II, p. 27, Lecce 1888.
[6] Maggiulli P., Il cisternale di Vitigliano, in Apulia IV, p. 256, Martina Franca 1910.
[7] Brandi A., Monumenti salentini inediti o mal noti, I, Le Centopietre di Patù, in Palladio (Rivista di storia dell’architettura), n. I-II, p. 30, nota n. 57, gennaio-giugno 1961.
[8] Una cisterna simile per dimensioni e forma a quella di Vitigliano è stata messa in luce, nel corso di lavori per la rete fognante, alla periferia orientale dell’abitato di Ugento, in via Marconi. La struttura monumentale è ubicata nella zona bassa della città, soggetta tuttora a frequenti allagamenti; molto probabilmente rappresentava la risorsa idrica di una grande domus di età imperiale inquadrabile cronologicamente tra I e II/III sec. d.C. Essa presenta una sezione trapezoidale ed è completamente rivestita da quattro strati d’intonaco in cocciopesto discretamente conservato; il fondo risulta inclinato verso la parte nord, dove si trova un pozzetto di raccolta e decantazione. La struttura era più alta rispetto ad oggi e quasi sicuramente era coperta da grandi blocchi poggiati sulle pareti, che lasciavano il posto ad almeno tre imboccature circolari in calcarenite locale, recuperate dallo scavo (Guida Archeologica di Ugento, a cura dello Studio di Consulenza Archeologica, pp. 20-21, Tuglie, 2007; http://www.salogentis.it/2009/03/05/megacisterna-romana-sotto-ugento/.
Illuminante esempio di quanto gli antenati fossero produttivi, creativi, lungimiranti e di quanto invece noi, popolo del ventunesimo secolo, piuttosto che creare progresso nel rispetto dell’ambiente che ci circonda, riusciamo solo a contrapporcene con trovate tecnologiche e infrastrutturali a dir poco ‘violente’. Ben vengano l’energia alternativa, le strade a scorrimento veloce, i ristoranti e le Spa, ma con metodi di costruzione meno cruenti possibili nel rispetto della nostra identità storica e paesaggistica e, lasciatemolo dire, anche di un reale fine di utilità collettiva. Nell’età messapica si era costruita la splendida cisterna qui descritta da Marco, oggi invece, nell’età ‘dello scempio’ non solo la si lascia cadere sotto le sferzate dell’incuria, ma niente di più facile che le si costruisca accanto una discarica o un campo fotovoltaico fuori norma capace di avvelenare perfino il ricordo di quell’acqua che, un tempo protetta all’ombra degli imponenti monoliti, ora ci guarda attonita chiedendosi cosa intendiamo noi per la parola ‘VITA’.
Grazie, Raffaella, le tue parole impreziosiscono l’articolo e offrono – come sempre – utili spunti di pensiero e riflessione. Nel breve contributo ho volutamente omesso – proprio in segno di rispetto della preziosa risorsa idrica – l’elenco dei rifiuti che giacciono sul fondo di questa antichissima cisterna.
Nell’Età dello Scempio, in cui si progettano opere inutili e faraoniche, operazioni semplici ed economiche come la bonifica e il diserbo non vengono prese in considerazione, perché non comportano un immediato lauto ritorno economico nelle tasche dei soliti noti.
Poco importa se, in questo modo, si calpesta la dignità di un monumento millenario, silente testimone di civiltà passate e portatore di un messaggio di un popolo antico, che si ingegnava a raccogliere goccia a goccia l’acqua necessaria alla propria sussistenza primaria, anche a costo di scavare con i scarsi mezzi a disposizione la dura roccia calcarea.
Un’ultima considerazione: tra i rifiuti sopra (non) elencati prevalgono le bottiglie di plastica e di vetro, monumenti e simboli di un’Età ormai in declino, quella del Consumismo sfrenato, dove l’educazione ambientale e il rispetto della natura sono poco più di un optional.
PAROLE SANTE ” L’incuria e la scarsa attenzione, che interessa non solo la cisterna di Vitigliano, ma la gran parte delle evidenze archeologiche del Salento, portano all’oblio della propria identità storica, senza contare le potenzialità turistiche questi beni potrebbero esprimere se adeguatamente promossi al pubblico e valorizzati nel modo in cui meritano.” ANDREBBERO SCOLPITE A CARATTERI CUBITALI.
Io dico: finché avremo una classe politica uguale e simile a quella che ci ha governato negli ultimi 20 anni, non ci sarà alcuna cura e attenzione sulle potenzialità turistiche dei beni storici e archeologici… Speriamo in un cambiamento radicale!
non si può che condividere ,purtroppo, tutto ciò che è stato detto. La cosa più grave ,a mio avviso, è anche il fatto che tutti noi dimentichiamo che quei resti per ogni territorio rappresentano non solo un patrimonio da difendere ma soprattutto la nostra identità . ciò che è storia e benessere per molti per noi è da abbandonare o, peggio, da distruggere
abbiamo un tesoro ma l’incuria le distrugge, peccato…..