di Giuseppe Spedicato
Continuiamo a chiamarla “Questione meridionale” ma altro non è che una tragedia che sembra non avere fine, per decenni dimenticata da tutti, finanche dagli stessi meridionali. Nel lontano passato la tragedia veniva rappresentata, ma non era uno spettacolo come lo intendiamo oggi, era un rito collettivo della pòlis, tanto che avveniva in un luogo pubblico ad essa consacrato. La rappresentazione aveva il fine di comprendere le ragioni della tragedia e di esorcizzare il male che l’aveva generata. Noi non rappresentiamo le nostre tragedie, non abbiamo neanche spazi dove rappresentarle, né le capacità di esorcizzare il male che le ha generate. Sembriamo impotenti di fronte alle avversità.
Da noi vi è una paurosa diaspora di giovani, da noi due giovani su tre non trovano lavoro e quando lo trovano è quasi sempre precario, ma a chi e dove raccontiamo questa tragedia? Anzi a chi e dove raccontano questa tragedia le singole famiglie? Da noi la tragedia non diviene mai un fatto collettivo, resta sempre un fatto privato della singola famiglia isolata dalle altre. Lo Svimez ci dice che la situazione peggiorerà nei prossimi anni, cioè ci avvicineremo sempre di più verso standard da Paese del Terzo Mondo, ma a chi interessa ciò? Dove e con chi ne parliamo? E soprattutto, ne vogliamo parlare?
Il Sud è già un territorio sottosviluppato e deindustrializzato dove la classe media sta scomparendo, inoltre si allontana sempre di più dal resto del Paese. In buona sostanza stiamo andando a fondo. In questo scenario inoltre, le mafie possono elaborare una strategia aggressiva e finire per controllare del tutto l’economia ed il territorio meridionale. Se vogliamo cambiare il nostro destino è indispensabile rappresentare e rappresentarci il nostro dramma con un rito collettivo. Dobbiamo capire come siamo arrivati a questo punto e trovare le soluzioni per uscirne. Ineludibile è il passaggio ad una nuova politica di sviluppo (intesa non solo come crescita economica ma soprattutto come progresso sociale e culturale), per il Meridione e per l’intera Italia. Tale politica comporta il doverci confrontare su quale sviluppo vogliamo per noi e per il nostro territorio.
Per Amartya Sen (in “Lo sviluppo è libertà”), premio Nobel 1988 per l’economia, lo sviluppo deve essere inteso come un processo di espansione delle libertà reali di cui godono gli esseri umani, nella sfera privata come in quella sociale e politica. Di conseguenza la sfida dello sviluppo consiste nel soddisfare i bisogni primari, ma anche nell’eliminare i vari ostacoli che impediscono all’individuo l’opportunità e la capacità di agire secondo ragione e di costruire la vita che preferisce. Questa libertà di agire è limitata e vincolata dai percorsi che ci impone il sistema (percorsi economici, politici, sociali) pertanto, la libertà individuale deve essere intesa come un impegno sociale. Non ci può essere progresso se le capacità, la voglia di fare e le speranze degli individui, di tutti gli individui, non vengono riconosciute o negate del tutto.
Nel Meridione la libertà di agire dell’individuo viene negata in tanti modi. Uno è attraverso la regolamentazione delle opportunità lavorative: limitarne la disponibilità a quelle controllabili da clientele politiche e corporazioni, farle divenire una concessione del principe di turno e attraverso la loro precarizzazione. Un altro è il controllo dell’informazione. Un altro metodo è impedire la mobilità sociale, cioè impedire che ruoli strategici vengano occupati da spiriti liberi. Un altro è negare anche la speranza del cambiamento. Pertanto, la condizione indispensabile per avere vero sviluppo è quella di dotarsi di un sistema democratico partecipativo. La democrazia deve essere un rito collettivo, non è sufficiente il diritto di voto. Deve essere sempre un rito collettivo, anche quando si decide di realizzare una modesta opera in una piccola città. Ma lo deve essere soprattutto quando lo sviluppo sembra chiedere rinunce a diritti consolidati o la scomparsa di un retaggio culturale. In questi casi è in gioco un modo di vivere di un popolo e queste decisioni non possono spettare ad un piccolo club di politici ed esperti. Queste decisioni devono essere discusse con tutta la comunità coinvolta.
[1] Pubblicato su “Il Paese nuovo” il 8 maggio 2012
E’ vero quello che scrive l’autore dell’articolo,ma quello che prende le famiglie e la singola persona è il sentimento di impotenza e il chiedersi: che posso fare io da solo? Come incidere su un sistema, se quelli che sono stati eletti a rappresentarci non sanno svolgere il loro compito e cogliere le istanze della collettività per trovare il giusto rimedio? E’ possibile che dobbiamo portarci sopra sempre e soltanto il marchio di incapaci?”
Affidiamoci alla speranza di fresche intelligenze…e a uno scatto di sano orgoglio…