Il poeta padano e il giornale terrone

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

 

Il morbo infuria…

il pan ci manca…

sul ponte sventola bandiera bianca!

Chi, con più di sei decenni sulle spalle, non ha ancora nelle orecchie l’eco di questi versi? Essi, com’è noto, fanno parte della poesia A Venezia ((questo è il titolo originale mutato poi in Le ultime ore di Venezia e, infine,  Bandiera bianca) scritta il 19 agosto 1849 da Arnaldo Fusinato (Schio, 1817-Roma, 1888), un poeta risorgimentale presente, soprattutto con questo componimento, in tutti i sussidiari della nostra verde età e pure sulla copertina dei quaderni.

L’esemplare in alto, riprodotto dal sito dell’Istituto Nazionale di Documentazione per l’Innovazione e la Ricerca Educativa (http://www.indire.it), fa parte della collana editoriale Poeti italiani dell’800 edita dall’Industria Cartaria Alta Italia di Milano, con illustrazioni di Italo Giovanni Mattoni, senza dubbio più conosciuto per due altre sue realizzazioni intorno agli anni ‘50: le figurine Liebig e Lavazza. Già allora, è evidente, la cultura (per quanto, direbbe qualcuno, legata, più o meno in buona fede, ad intenti propagandistici o ad una visione tutta rose e fiori del movimento risorgimentale) doveva cedere il passo ad altre esigenze più materiali…

Sorprendente è poi nel quaderno la totale differenza somatica rispetto ad un ritratto di fine Ottocento che, si presume, doveva essere più fedele.

E oggi? In mancanza di ideali, magari mitizzati o, peggio, mistificati,  sono subentrati altri modelli e dal 2008 nel cuore delle ragazze Marcelo Tinelli ha preso il posto occupato ai nostri tempi da Arnaldo Fusinato e Daniele Manin (l’eroe celebrato in A Venezia) è subentrata Patty col suo mondo1 (in basso alcuni diari ispirati dalla serie televisiva).

Ma quanti, già prima, avranno pensato a Daniele Manin ascoltando Bandiera bianca, una delle tracce dell’album La voce del padrone inciso da Franco Battiato nel 1981 per la Emi, in cui il ritornello è costituito dall’ultimo dei tre versi citati all’inizio?2

Abbiamo divagato troppo, perciò torniamo ad Arnaldo Fusinato ed a giustificare il titolo di questo post dovuto al fatto che una sua poesia, Le due gemelle,  trovò ospitalità nel n. 22,  anno I (13 agosto 1855) del settimanale (usciva il lunedì) leccese Il filosofo Barba-bianca3.

La stessa poesia, con altre, sarà pubblicata “ufficialmente” solo nel 1868 in Poesie, v. II, Carrara, Milano. Di seguito il frontespizio e la tavola che illustra la poesia.

Le due gemelle

I

O giovinette, se nel cuor vi suona

la santa voce del fraterno amor,

fatemi intorno una gentil corona,

e il verso udite dell’umìl cantor.

Ell’è un’istoria, che bambino appresi

sovra i ginocchi di mia madre un dì,

e come dalla sua bocca l’intesi,

fanciulle, a voi la narrerò così.

V’erano, non so dove, due sorelle

insiem cresciute dalla stessa età,

e siccome nascevano gemelle,

eran pari di grazia e di beltà;

e fra di lor s’assomigliavan tanto,

che non può mente umana imaginar;

la madre istessa che l’avea d’accanto,

l’una con l’altra le solea scambiar.

Allor che usciano dalla santa messa

avvolte entrambe nel lor bianco vel

parean due foglie d’una rosa stessa,

parean due stelle dello stesso ciel.

Tutto era egual:, il bruno delle chiome,

l’arco del ciglio, il vergine pallor;

Norina e Nella si dicean per nome,

e il nome sol le distinguea fra lor.

E queste care, che all’istessa cuna4

ebber comuni il latte e l’origlier5,

s’amavan tanto che il pensier dell’una

sempre sempre dell’altra era il pensier.

Quando il sembiante sorridea di Nella,

Norina anch’essa avea il sorriso in cor,

e se questa piangea, piangea pur quella,

indivise nel gaudio e nel dolor.

 

II

 

-Vieni, o sorella, vienmi vicina,-

un giorno a Nella dicea Norina

– un gran segreto tengo sepolto

nella più ascosa parte del cor,

e – proseguiva chinando il volto

– a te, mia Nella, nol dissi ancor.

È circa un mese, dal mio balcone

scontrai lo sguardo d’un bel garzone:

ha l’occhio azzurro, la taglia snella,

un portamento da cavalier;

e la sua imagine, mia dolce Nella,

l’ho sempre fisa nel mio pensier.

Ma donde venga, ma chi egli sia

io non so dirti, sorella mia;

so ben che un giorno con mesto accento

– Oh quanto io t’amo! – gl’intesi dir;

ed io gli offersi da quel momento

tutto il profumo de’ miei sospir-.

Così Norina diceva, e intanto

sul ciglio a Nella spuntava il pianto,

quell’occhio azzurro l’aveva anch’essa

dal suo balcone scontrato un dì,

e quella dolce parola stessa

nel giovin sangue fremer sentì.

L’estranio, illuso6 dal lor sembiante,

era d’entrambe rimaso amante;

e così all’una -T’amo!- dicea;

diceva all’altra -T’amerò ognor!-.

Una soltanto d’amar credea,

e due ne amava d’un solo amor.

Povera Nella! Ben essa in core

sentiva il fremito del primo amore;

ma da quel giorno che la sorella

l’ascoso affetto le confidò,

più il desioso sguardo di Nella

nel bell’estranio non s’incontrò.

Nella sua immensa pietà fraterna

l’amor combatte che la governa:

la cara imagine fugar s’ostina,

ma quell’imagine ritorna ognor!…

Felice intanto vivea Norina

fra i casti gaudi d’un santo amor.

 

III

 

Son promessi, il gran dì s’avvicina

che due cari sì a lungo sognar:

fra tre giorni la bella Norina

salirà col suo sposo all’altar.

Già trapunta è la serica vesta

che sul fianco ondeggiar le dovrà,

già la bianca ghirlanda s’appresta

che il lucente suo crin cingerà.

Il suo cuore sospira anelante

alla festa del prossimo dì;

ma di Nella sul fosco sembiante

improvvisa una fiamma salì.

Una fiamma che i sensi le invade

coll’ambascia di un nuovo dolor,

che per l’ossa trascorre e ricade

come un masso di piombo sul cor.

Poveretta! Una lotta sostenne

che niun labro saprebbe ridir;

poveretta! in quest’ora solenne

cede al peso di tanto soffrir.

Ma il respiro le balza nel petto,

ma più spesso le palpita il cor:

già s’affrettan sul vergine letto

le tremanti sue membra a compor.

E Norina con ansia pietosa

fra le angosce d’un dubbio fatal,

come un Angiol custode si posa

della suora7 all’insonne guancial.

Ma di sogni in un vortice ardente

la ragione dell’egra8 smarrì;

nel delirio travolta è la mente

e il suo labro favella così:

-Via da me quelle splendide faci9,

via quei sogni che mi ardono il cor;

se d’amor non mi parla quell’uno,

che nessuno mi parli d’amor.

Come l’ape all’olezzo del fiore

questo core si volge a lui sol;

nel profumo lo sento dei campi,

dentro i lampi lo veggo del sol.

Col suggello d’un ferro rovente

nella mente il suo nome mi sta,

ma quel nome, che tanto invocai,

nessun mai dal mio labro l’udrà.

A te sola mia dolce sorella,

la tua Nella quel nome può dir;

vienmi appresso, sul letto t’inchina

che Norina non l’abbia ad udir.

Oh! non sappia che m’arde nel petto

quell’affetto che anch’essa provò;

sul tuo serto di sposa, o Norina,

questa spina non io gitterò.

De’ tuoi gaudi non turbi la festa

questa mesta che muore d’amor;

sol nei dì che verranno, o sorella,

la tua Nella ricorda talor!-.

 

IV

 

Così parlava e tra le sparse chiome

convulsamente la sua man spingea,

quasi a strappar quel formidato10 nome

che per l’ardente suo pensier correa;

così parlava, e la sorella intanto

muta e pensosa le sedeva accanto.

E declinando la sua fronte mesta

sull’origlier della gentil giacente,

di novissimi affetti una tempesta

ferver sentia per l’agitata mente;

poi sorse, e bella d’un divin sorriso,

a lei si strinse, e la baciò nel viso,

– No, non morrai – dicea – povera Nella,

no, non morrai di quest’amor sì grande;

a te sola, a te sola, o mia sorella,

la mia veste, il mio vel, le mie ghirlande:

il don mi festi del tuo amore, ed io

il sacrifizio ti farò del mio-.

Al noto suon di que’ soavi accenti

schiuse gli occhi la bella dolorosa,

e in lei fissando le pupille ardenti:

– Sei tu, dunque- le disse -o mia pietosa,

che dentro all’alma travagliata e sola

mi piovi il gaudio della tua parola?

Quel che or dicesti io non saprei, ma tanto

è il conforto, che il tuo labro m’addita,

che in questo cor dai patimenti affranto

ancor mi sento rifluir la vita:

stammi, sorella mia, stammi qui presso,

e parla ognor come parlavi adesso-.

Così dicendo, sul fraterno seno

la bellissima testa abbandonava,

e in un cielo d’amor lieto e sereno

la sua redenta fantasia vagava,

mentre Norina santamente mesta

le carezzava la dormente testa.

 

V

 

L’anno appresso, alla cappella

del domestico tempietto

si stringea la man di Nella

alla man del suo diletto.

Era bella e parea lieta

quando all’ara s’accostò,

ma una lagrima segreta

dentro gli occhi le tremò:

che Norina all’ora stessa

chiusa anch’essa nel suo vel,

il gran voto profferia

che l’unia per sempre al ciel!

 

           ARNALDO FUSINATI11

 

Il componimento, a chi ha avuto la pazienza di leggerlo fin qui, può sembrare melodrammaticamente melenso; esso, però, va giudicato in rapporto alla temperie culturale degli anni in cui fu scritto, con riferimento, sul piano formale, ai frequenti latinismi e su quello concreto all’esaltazione dello spirito di sacrificio, oggi latitante anche tra fratelli, che trova la sua espressione nell’unica soluzione allora, nella fattispecie, attuabile per le ragazze, oggi (questo sì fortunatamente, almeno per chi scrive) neppure presa in considerazione.

_________

1 Per un approccio sia pure parziale, ma simpatico, al fenomeno: http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/12/23/le-ragazze-il-manuale-di-sopravvivenza-di-lara/

2 Il primo numero del settimanale fondato dal libraio Pietro Parodi (soppresso dal regime borbonico dopo circa due anni) uscì il 19 marzo 1855 (lo abbiamo ricostruito partendo dai tredici numeri superstiti, non consecutivi, conservati nella Biblioteca provinciale Nicola Bernardini di Lecce),  non 1854 come si legge proprio in Nicola Bernardini, Guida della stampa periodica italiana, R. tipografia editrice salentina dei fratelli Spacciante, Lecce, 1890, pag. 482: Dal 1849 alla prima domenica di marzo del 1854 non si ebbero giornali in Lecce. In quel giorno appunto nacque il Filosofo Barba-Bianca; abbiamo già detto che usciva il lunedì e, oltretutto, la prima domenica di marzo 1854 corrisponde al giorno 5.

3 In tempi più recenti si può cogliere un’eco formale, non sapremmo neppure dire quanto consapevole, in Sul ponte sventola bandiera gialla, titolo di un capitolo di Capitan Fox, messaggio in bottiglia, un libro per ragazzi di Marco Innocenti e Simone Frasca, Giunti, Firenze e Milano, 2010, pagg. 100-106. Il titolo del capitolo sembra l’incrocio fra Sul ponte sventola bandiera bianca del Fusinato e Bandiera gialla, trasmissione radiofonica di successo condotta negli anni ’60 da Renzo Arbore e Gianni Boncompagni e che ispirò pure nel 1966 l’omonima canzone lanciata da Gianni Pettenati, il cui ritornello recitava così: Finché vedrai/ sventolar bandiera gialla/tu saprai che qui si balla/ed il tempo volerà…; quanta acqua è passata sotto i ponti… non solo di di Venezia!

4 Voce letteraria, dal latino cuna(m)=culla.

5 Guanciale. Origliere è voce letteraria dal francese oreiller, da oreille=orecchia.

6 Ingannato.

7 Sorella; la voce ha quasi una valenza premonitrice, anche perchè metricamente nulla avrebbe impedito di usare sorella, che, fra l’altro, compare più avanti.

8 Sofferente; la voce, letteraria, è dal latino aegra(m).

9 Fiaccole, metaforicamente intese come fuoco d’amore. Face è voce letteraria dal latino face(m).

10 Temuto. Voce letteraria dal latino formidàtu(m), participio passato di formidàre=temere.

11 Sic.

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