di Wilma Vedruccio
All’epoca Idrusa era nome di donna, non d’ostello.
Nome antico.
Era cresciuta fra le barche del porto
e i cespugli della macchia
appena fuori il paese.
Le altre bambine nei vicoli del borgo
si allenavano
al loro mestiere di donna
facevano esercizi
di sorda rassegnazione e di ipocrisie fra pari.
Lei no.
Non aveva appreso quel mestiere
non aveva imparato a mentire
a subire, a rinunciare…
E si può capire.
Le barche a riposo, con la pancia al sole,
stese su i banchi delle posidonie
era lo scenario dei suoi giochi
al pari dei maschi del paese
non delle bambine.
Annoiavano la piccola Idrusa
i giochi delle femminucce
nei cortili assolati
le loro chiacchiere, i loro dispetti
le loro storie.
Aveva seguito con occhi incantati per ore
il volo frenetico di volatili ubriachi
d’aria e di sole
aveva fatto lunghi esercizi di sogno
senza cose sognate
appesa alle ali di superbi gabbiani
e di acute ed attente poiane.
Aveva respirato gli odori
che a primavera affollano l’aria
intorno alla macchia
aveva imparato a distinguere il timo
dalla santoreggia
il ginestrino dal cisto
senza sapere il loro nome.
Si era appropriata del loro codice
come un piccolo animale.
E conosceva le erbe
le mille erbe selvatiche
che in aprile
si affrettano a spigare
perché il sole di maggio possa poi
seccare il loro seme
dialogava con esse.
Aveva a lungo combattuto Idrusa
con la paura di andare e
la voglia di scoprire
che coabitavano nel suo cuore.
Più volte aveva tremato alla vista di serpi e sacare
che fra erbe e cespugli rubavano il sole
ma sempre aveva ricacciato indietro
l’atavico timore
perché davanti a lei
c’era un fiore
aveva intravisto un uccello in lontananza.
Nelle sue vene, oltre al sangue
fluiva il desiderio
di soddisfare la curiosità dei suoi occhi
la vivacità dei suoi sensi
la gioia di vivere.
Aveva a lungo guardato il taglio
fra il cielo e il mare
e in silenzio aveva sorbito il mito
le tante storie del mito
senza sapere.
La Grecia per lei era
solo una direzione verso l’orizzonte.
Le montagne dell’Albania che all’improvviso
in alcuni mattini
occupavano l’orizzonte lì a Oriente
erano il suo miraggio
senza nulla conoscere
senza sapere niente di quel paese.
Quel profilo di monti
che tratteneva i vapori del cielo
era il suo eldorado.
Aveva visto le tempeste Idrusa
le tempeste del mare.
Aveva familiarizzato con le onde.
Avida respirava la salsedine
e si leccava le labbra
le piaceva il sale.
E seguiva incantata il volo degli spruzzi d’acqua
quando le onde, alte come montagne
rompevano contro gli scogli
seguiva il corso dei rivoli
che s’affrettano a tornare al mare.
Non capiva perché
non sapeva nulla delle leggi di natura
non si interrogava.
Ne partecipava solamente.
Il lavoro dei contadini negli orti, la sua scuola.
Li osservava per ore
quando piantavano o sarchiavano
quando innaffiavano le giovani piantine
stordite dal sole.
Sapeva i tempi di crescita delle piante dell’orto
i tempi della loro maturazione.
I pomodori accendevano la sua fantasia
quando s’arrossavano sotto il solleone
si divertiva a raccoglierli
si meravigliava sempre
delle mani sporcate dal fogliame
che si ripulivano subito
schiacciando un pomodoro fra le dita
ma non riusciva ad addentarli mai
a sentirne il sapore.
Ascoltava in silenzio il canto
delle contadine, cadenzato
a cui rispondeva
il canto virile degli uomini del campo
ma non partecipava
si sentiva estranea a quel ritmo
inseguiva senza capire le loro parole.
La disturbavano poi le loro risa sfacciate.
tratto da: Sulle orme di Idrusa, di Wilma Vedruccio
Kurumuni Edizioni
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