ALFREDO ROMANO CANTANTE
Voce formata allo studio severo del canto gregoriano nei cinque anni di permanenza presso il Seminario diocesano di Nardò e contemporaneamente plagiata dagli echi ancestrali degli stornelli di lavoro e d’amore della struggente campagna salentina
di Nino Pensabene
A primo acchito sembra si riagganci molto alla Scuola dei Cantautori Genovesi, il modo di cantare di Alfredo Romano, anche se la particolarità del timbro vocale – tanto poderoso da espandersi in echi cavernosi e sofferto da scivolare nel nenioso – riporta più specificamente a quello di Umberto Bindi e in qualche passaggio a quello di Marino Barreto jr.
Ad un’analisi più approfondita, però, ascoltandolo, cioè, e riascoltandolo nelle interpretazioni di più vasta tematica e pluralità di registri musicali, ci si accorge che si tratta di una voce tanto particolare da risultare difficile una collocazione ben precisa. Sicuramente c’è l’appartenenza vocazionale ad una “scuola”, quella appunto dei “Cantanti genovesi” degli anni ’60, più che altro il voler caparbiamente seguire un indirizzo che affascina e che nel tempo ha conquistato parecchi interpreti, ma secondo me nella raggiunta autonomia (avvenuta, immagino, in modo inconscio nel cantante) ci sono due elementi responsabili che stazionavano nella formazione di base e che man mano sono divenuti un unico governatore dello stile canoro. Due elementi che sono diversissimi fra di loro, anzi che stanno agli antipodi, ma forse proprio per questo uno fa di supporto all’altro dando per risultato l’eccellente autonomia stilistica testé accennata.
Non vanno dimenticati a proposito i due ambiti da cui proviene Alfredo Romano: la campagna salentina, caratteristica per il fascino cromatico dei suoi stornelli popolari – di lavoro e d’amore -, e il Seminario diocesano di Nardò, dove da ragazzo vi ha soggiornato per 5 anni. Cinque anni che nel nostro caso si traducono i 5 anni di scuola severa anche per ciò che concerneva lo studio del canto; e dire canto in ambito religioso significa parlare di canti gregoriani e di riflesso di melodie severe e di orientamenti mistici, nettamente in contrasto con i canti campestri salentini che – per ancestrale reminiscenza – sembra abbiano messo radici nel DNA di Alfredo Romano. Reminiscenza di canti rievocatori della solitudine, sofferenza o intolleranza di giorni tristemente invernali o, per contrasto e paradossalmente per similitudine, della passione carnale dei meriggi canicolari quando il fermento del sangue giovanile si affidava alla voce – plagiandola, rendendola cioè gutturalmente gravida – per comunicare, da campo a campo, sentimenti d’amore e voglie represse.
Ora, la voce di Alfredo Romano orbita su questi due versanti. Ma se il canto gregoriano da una parte è stato valido motivo di educazione formativa e di correzione al libero sfogo campagnolo, dall’altra ha condizionato la voce anche nell’interpretazione dei canti di emigrazione o comunque di temi popolari, dove nonostante lo sforzo di apertura verso libertà che andrebbero quasi gridate si nota una remora, un contenimento, frutto appunto di un’educazione canora severa nei confronti di un qualsivoglia cromatismo.
Rovescio della medaglia, la campagna salentina, pur se soffocata dalla irreggimentazione delle melodie gregoriane, ha prevaricato con il caratteristico timbro di una voce “gutturalmente gravida”, non angelica, consentendo così una più terrena rappresentazione, una più maschile – o maschia – modulazione interpretativa.