di Giorgio Cretì
Nel tempo di Zeus – in età per così dire moderna – ad un certo punto della storia umana, fu scoperta l’alimentazione sofisticata e chi poteva si nutriva con cibi rari che venivano anche da molto lontano. Da quello che sappiamo, però, da ciò che ci hanno lasciato scritto, gli antichi – non tutti naturalmente, solo poeti e scrittori – quando erano stanchi della vita lussuosa che conducevano tutti i giorni, sentivano nostalgia della vita primitiva, quella dei campi, della platonica “cittα del bisogno”, ed invidiavano i contadini che potevano condurla: “Beati voi, guardiani e contadini! Tutte queste fortune, preparate per i padroni, sono a vostra disposizione”, dice Marziale in una delle sue Satire (X, XXX).
In un certo senso, e solo in questo però, Marziale ha ragione quando afferma che certe fortune non le godono i padroni che le hanno accumulate, ma i servi che le sorvegliano. Pensiamo per esempio allo zappatore: d’estate sotto la canicola con la sua zappa da due chili e mezzo puntava nelle fessure del terreno e rivoltava enormi zolle che lasciava esposte al solleone in attesa delle piogge autunnali che le sciogliessero.
Aveva ragione Marziale, perché il contadino – che tempo l’arrivo della sera, avrebbe cambiato colore perché coperto dalla polvere rossa trattenuta dal sudore –, durante la giornata qualche volta rompeva il ritmo del suo lavoro per raddrizzare la schiena dolorante, ma anche per raccogliere qualche frutto nascosto che la terra gli rendeva dal suo profondo. Raccoglieva le monacelle, le lumache marroni in letargo, con il guscio del colore della terra, che apparivano improvvisamente, visibili per il loro bianchissimo opercolo protettivo; le raccoglieva e se le buttava man mano davanti. Allo stesso modo raccoglieva i lampascioni, i grossi bulbi violacei, che a sera metteva nella bisaccia. Erano frutti che il padrone non poteva apprezzare appieno, specialmente le monacelle. Quando il villano interrompeva il lavoro e, al riparo dalla brezza, con la giubba sulle spalle perché il sudore non gli si aciugasse addosso, faceva una fumata con la sua pipa di creta, bruciava una manciata di stoppie e buttava nel fuoco le chiocciole che arrostivano in pochissimi minuti, oppure le mangiava crude prima che iniziassero ad emettere la loro ripugnante bava. Era un privilegio di cui solo lui poteva godere.
Ma il villano, il nostro villano, non raccoglieva quelle chiocciole dal guscio marrone solo quando la terra le rendeva dal loro letargo; con le prime piogge d’agosto, quando uscivano dal letargo estivo in cerca di cibo ne portava a casa panieri colmi e le consegnava alla famiglia per farle spurgare. Erano una leccornia collettiva ed erano dette monacelle per via del colore marrone del guscio e della lamina membranosa bianca con cui il mollusco si chiude all’interno per proteggere il suo sonno. Era la miglior carne del villano, quasi l’unica disponibile, quando c’era. Come gli altri molluschi, di terra e di mare, si chiamava cozza. Tutte le cozze si distinguevano l’una dall’altra per l’aggettivo che le seguiva: le terrestri in tutto erano sei, anche se una, la cozza palummeddha (Helicella hydruntina), non veniva mai raccolta perché troppo magra ed era facilmente riconoscibile dall’incavo largo e profondo al centro della sua spirale.
Nel Salento si chiamano cozze tutte le chiocciole. Le limacce si chiamano cozze nude e non c’entrano. Le varietà oggetto di raccolta a scopo alimentare, tolta la palommella, sono, quindi, cinque; le più grosse sono chiamate cirumani, ciammarruchi o anche cuzzuni e sono le famose escargot (Helix aspersa), oggetto di grande commercio e consumo, specialmente in Francia: in molte zone della Terra d’Otranto, però, non sono prese nemmeno in considerazione.
Le cozze più importanti, in ordine di preferenza, sono quindi le cozze moniceddhe o ntuppatieddhi ed anche uddatieddhi e chiuddhi (Helix aperta). La cozza moniceddha è solita rifugiarsi sottoterra con la conchiglia appena affiorante. Se la si tocca emette rapidamente una grande quantità di schiuma creando intorno a sé una barriera dello spessore di qualche centimetro e facendo al tempo stesso un gorgoglìo intermittente abbastanza rumoroso. Se questo suo schiumare e brontolare può essere una tattica di difesa efficace contro alcuni suoi predatori, sortisce però anche l’effetto contrario di svelare la sua presenza al “raccoglitore” umano che, frugando con le mani sul terreno o tra l’erba alta, riesce ad individuarle molto facilmente.
La cozza moniceddha è molto sensibile alla temperatura ed all’umidità e non appena le condizioni ambientali non sono più ottimali essa entra in ibernazione (se è troppo freddo) o in estivazione (se è troppo caldo o troppo secco) rifugiandosi in una buca scavata nel terreno e sigillando l’apertura della conchiglia con il suo opercolo calcareo. Come tutti gli Helicidae, è una specie ermafrodita insufficiente, cioè ogni individuo possiede sia organi riproduttivi maschili che femminili ma non è tuttavia in grado di autofecondarsi. Ecco perché, molto spesso, in autunno, le cozze moniceddhe si raccolgo a due per volta, i cosiddetti paricchi.
COME MANGIARE LE COZZE DI TERRA
Cozze moniceddhe in soffritto
Kg. 1,5 di monacelle in letargo (con l’opercolo bianco), ml. 50 di olio extravergine d’oliva, 1 bicchierino di vino rosso, sale q.b.
Mettere a bagno in acqua fredda le lumache e poi lavarle, strofinandole, per togliere la terra dal guscio.
Una per una, togliere loro l’opercolo ed eliminarne qualcuna eventualmente morta; passarle man mano in un colapasta, e alla fine sciacquarle bene ancora sotto l’acqua corrente.
Scaldare l’olio in una padella di ferro e versarvele tutte assieme.
Farle saltare per qualche minuto a fuoco vivace, quindi aggiungere il vino.
Far evaporare e poi abbassare il fuoco.
Soffriggerle per un’oretta a padella coperta e servirle calde.
Essendo di dimensioni più piccole rispetto ad altre verietà di lumache, si estraggono dal guscio con l’uso di uno stecchino.
Cozze piccinne ndilissate
Kg. 1,5 di cozze piccinne, ml. 50 di olio extravergine d’oliva, 1 pizzico di origano, sale q.b., peperoncino verde fresco a.p.
Lavare bene le cozze, porle in una pentola coperte d’acqua fredda e lasciarle allungare col corpo fuori dal guscio mentre tentano di andarsene. Quando tutte saranno in movimento incoperchiare, accendere il fuoco e tenerlo basso fino a quando i molluschi non si muoveranno più; a quel punto alzare la fiamma e cuocere per un quarto d’ora circa.
Toglierle dall’acqua di cottura, lavarle nuovamente con acqua fresca e scolarle. Salarle, spolverarle di origano, aggiungere il peperoncino fresco tagliato ad anellini ed irrorarle con l’olio d’oliva.
Mescolarle ben bene perché il sale si sciolga e son pronte da mangiare in compagnia come fossero bruscolini.
Cozze piccinne tutte pare
Kg. 1,5 di cozze piccinne, gr. 300 di pomodori a pezzi, 1 spunzale (o un cipollotto verde), 1 ciuffo di basilico, 1 ciuffo di prezzemolo, ml. 50 di olio extravergine d’oliva, sale q.b., peperoncino fresco o secco a.p.
Lavarle per bene e mettere le cozze in casseruola assieme ai pomodori tagliati a pezzi, allo spunzale pure spezzettato, al basilico, e al peperoncino spezzato in due; aggiungere ½ bicchiere d’acqua, salare e irrorare con l’olio d’oliva. Farle andare a fuoco moderato per una ventina di minuti, poi son pronte.
Per estrarre la chiocciola dal guscio ci si può servire di uno stecchino, ma esiste un sistema che ad apprenderlo bene è molto più efficace: si prende la chiocciolina tra pollice e indice e con un canino si fora il guscio a metà della prima spira, poi si dà una bella succhiata e l’animaletto resta in bocca; si pone il guscio vuoto in un recipiente messo lì apposta e si continua così finché ci sono chioccioline da mangiare. Ogni tanto si mangerà anche un pezzo di pane dopo averlo intinto nel brodo e si berrà un mezzo bicchiere di vino rosso di media gradazione alcolica, se si vorrà.
Alla fine le labbra saranno infuocate, ma la soddisfazione dello stomaco sarà molto grande.
Sull’argomento si rimanda ad altri articoli pubblicati nei mesi scorsi su Spigolature Salentine:
http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/06/30/gastronomia-salentina-lumache-chiocciole-co/
http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2012/01/26/voglia-di-cozze-piccinne/
Che buone le “cuzzedde” e le “matedde” (così le chiamiamo in famiglia)! Meraviglie della tradizione salentina dal gusto particolare e indimenticabile. Un saluto da un’italiana all’stero, Viel Spaß & Ciao!
Vincenza