di Vincenzo Ampolo
“ Sto aspettando perpetuamente
una rinascita della meraviglia”
L. Ferlinghetti
Da pochi giorni ho spostato sulla mia pagina di facebook il filmato, a disegni animati, del testo di Jean Giono “ L’uomo che piantava gli alberi”.
La narrazione, parla di un’impresa compiuta da un solo uomo, capace di trasformare un territorio brullo e inospitale in un paradiso pieno d’alberi, corsi d’acqua e animali dalle mille varietà.
Per una serie di circostanze fortuite o d’occasioni non ricercate ho in questi giorni ricevuto diversi stimoli relativi al tema dei giardini ed alla loro magia.
Girovagare per le strade di una Lecce ancora addormentata, in un mattino d’estate, pieno di luce e di ricordi, mi ha ulteriormente suggerito alcune considerazioni che voglio condividere con chi avrà voglia di una sosta rilassante all’ombra delle mie parole.
Già mi ritrovo bambino, nei pomeriggi di primavera a camminare incantato dai colori e dai silenzi odorosi, per i viali alberati che, dal rione San Lazzaro, portavano fuori dal centro abitato, oggi sempre più dilatato, costeggiando ville antiche a cui si aggiungevano, alla fine degli anni sessanta, nuove villette più bizzarre ed estrose.
In realtà le ville più antiche circondavano, e in parte circondano ancora, i viali che segnano i confini dell’antica città, le sue famose Porte.
Su una stradina che, costeggiando l’Ateneo, va da Porta Napoli a Porta Rudiae, scoprii da ragazzo un meraviglioso giardino pensile che doveva essere la continuazione di tutta una serie di giardini situati sopra le mura della città.
Spesso avevo guardato “dal basso”, arrivando a scorgere solo i rami più alti di alberi e piante maestose e misteriose al tempo stesso, e fantasticando su tutto il resto. Sicuramente, sù in alto, vi erano strane strutture arboree formate da erbe profumate che creavano archi, cerchi, quadrati, disegni alchemici e piccoli labirinti. E mi ero pure domandato cosa poteva accadere in quei giardini. Le storie d’amore, gli intrighi, gli sguardi, i silenzi, i giochi di bimbi e i passi meditativi degli anziani.
Ma quel giorno la mia curiosità fu in parte appagata.
La casa sottostante era di proprietà di una antica famiglia leccese che, avendo di meglio in cui alloggiare, aveva di fatto abbandonato quella casa, che era stata preda del tempo, dell’incuria e di visite barbare ed inopportune.
Non senza una certa apprensione, ero salito su per una lunga scala stretta e buia e, una volta arrivato in cima, avevo scoperto la meraviglia di quello che rimaneva di un antico giardino pensile.
Li, su in terrazza, vi erano piantate palme, alberi da frutta e roseti in rovina… vi erano inoltre fontane, che immaginavo piene di piante acquatiche e di pesci, spazi circolari e sedili di pietra per riposarsi all’ombra dei grandi alberi.
Il fascino di quel luogo imprevisto, seppure in stato di abbandono, mi accompagna ancora adesso che provo a scriverne.
Lungo i contrafforti della città di Lecce dovevano esserci innumerevoli giardini pensili, costruiti con grande perizia e cura, capaci di competere con i “paradisi” persiani, per compiacere le donne dei Grandi, per creare meraviglia negli ospiti, e per sottolineare la propria ricchezza e il proprio potere.
A noi, “comuni mortali” rimaneva la Villa Comunale, in cui da bambino venivo catturato dalla vecchia lupa, reclusa nel poco spazio disponibile che percorreva incessantemente, da una parte all’altra e viceversa.
Poi vi era la vasca celeste, circolare, con l’acqua fresca e con i bianchi cigni. Una vasca più volte inutilmente rifatta e riadattata, come tutta la “Villa” d’altra parte.
Se l’acqua è il cuore pulsante di ogni giardino, la nostra villa comunale ha perso da tempo il suo cuore, vittima dei troppi interventi e trapianti.
Nel tempo, le Amministrazioni Comunali che si sono succedute hanno costruito all’interno della “Villa” voliere e gabbie … oggi inspiegabilmente inutilizzate, mentre sono sorte all’interno costruzioni dal dubbio utilizzo sociale.
Ma la cosa più triste è l’accesso “limitato” ai visitatori che, pure nei pochi periodi in cui non ci sono lavori “in corso”, si trovano chiusi i cancelli nelle ore più idonee a passeggiare tra i viali.
Riuscendo ad entrare, i cartelli all’ingresso parlano chiaro:
Nella “nostra” villa comunale non ci si può sdraiare sulle panchine, entrare con pattini, biciclette o cani, non si può giocare a palla, e nemmeno sdraiarsi sull’erba ed altro ancora…
Il nostro parco pubblico sembra più un giardino borghese che la signora bene apre al popolo, ma richiedendo una certa “educazione” che sa di muffa e castrazione.
I giardini pubblici di tutta Europa sono certamente più vivibili, la gente gioca, si sdraia sull’erba, suona, studia, prende il sole, e può addirittura levarsi le scarpe o scambiarsi un bacio senza che la povera guardia di turno sia costretta a venire a dire “eh… non si può fare !”
Ma di questo e d’altro si dovrà ancora parlare, che almeno non ce la tolgano questa ultima libertà del dire ciò che ci manca in questa tanto amata città.
pubblicato su “Il Paese Nuovo, quotidiano del Salento” domenica 4 settembre 2011