di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
(…) Per quella caratteristica mentalità popolare totalmente refrattaria alla concezione di un aiuto a fonte univoca, all’interno della coppola – tra fodera e tetto – spesso veniva a crearsi un habitat di presenze oggettuali i cui campi di riferimento potevano dirsi in netta opposizione. Accanto alla medaglietta sacra (la spiràgghia), riconosciuta tramite di celesti protezioni, o nascostavi da una moglie desiderosa di convertire il marito bestemmiatore, trovava bellamente posto lu pasùlu spiùru (il fagiolo bianco ibrido) le cui anomale macchie scure, ritenute spruzzi escrementizi del diavolo, assicuravano a chi lo portava addosso la benevolenza degli spiriti maligni, dicat il loro aiuto nel realizzo delle covate aspirazioni di ordine materiale. Il tralcetto di gramigna annodato tre volte, al quale ricorrevano le madri per proteggere i figli da infidi trameggi femminili, si trovava a tu per tu col più classico dei pegni d’amore, cioè la furmeddhra (il bottone) che la ragazza appositamente staccava dal più intimo dei suoi indumenti, raccomandando all’amato: “Intra’a lla còppula ti ll’à ttinìre, intr’a lla còppula” (“Nella coppola la devi tenere, nella coppola”). Di contrasto alla ciocca dei capelli della moglie defunta, che già in sede di veglia funebre il vedovo pubblicamente infilava nella coppola, altrettanto pubblicamente protestando “Intr’a llu cirieddhru mi li mentu cu nno mmi nni pozzu mai scirràre” (“Nel cervello me li metto affinché non abbia mai a dimenticarti”) c’era sempre un pezzetto d’unghia che lo stesso vedovo segretamente rifilava al proprio alluce destro, questa volta mentalmente ripetendo: “Cu nno mm’aggia a cchiamàre prima ti lu tiémpu” (“Ché non abbia a chiamarmi prima del tempo”). La ciocca di capelli infatti poteva generare un’affatturazione con la morta, la quale – facendo di quella presenza memoriale una forma di richiamo – avrebbe potuto provocare nna sicutàta a ppassu spiértu (un seguito a passo svelto = morte del marito in breve tempo). L’unghia invece, incarnando il simbolo della continuità, anzi della crescita, valeva a ristabilire il diritto alla vita del superstite, un proseguimento nel cammino terreno – come la crescita dell’unghia appunto – reso più esplicito dalla chiamata in campo del piede destro, antonomastica immagine di consapevole inizio, in questo caso di coraggiosa svolta.
La più importante svolta per un vedovo era quella di passare in seconde nozze, decisione spesso inevitabile, pur se sempre difficile: la donna ca si itìa mannare ti nnu cattìu (che si vedeva chiesta in moglie da un vedovo), pur se ormai zzita fatta ca àuru no spittà (zitella matura che aspettava proprio quell’occasione), si facìa cara a bbinnìre (si faceva cara a vendere), accampando mille scuse – troppo vecchio, troppo povero, incomoda presenza di figli – e più che altro facendo valere il timore di non essere tinùta bbona (tenuta bene), in quanto – diceva – “A lli spaddhre ti nnu cattìu pirdùra sempre sursu ti màsciu” (“Alle spalle di un vedovo perdura sempre il sorso di maggio”, ossia l’affetto per la prima moglie), il che avrebbe reso il suo matrimonio no llicrézza t’àjara ma muérsu ccuétu an terra pi bbisuégnu (non allegrezza di aia ma tozzo raccolto a terra per fame). Tutta una furba tessitura per costringere l’uomo a pronunciare esplicite promesse, a suggello delle quali – si sapeva – le avrebbe consegnato la coppola (in questa occasione soprannominata menza capu ), autorizzandola a bruciarla quale segno di annullamento del passato, più esattamente di scardinamento del legame affettivo con la prima moglie. (…)
Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, 1994 (pagg. 182-183)