di Alessio Palumbo
Giorni fa rileggevo con grande interesse il libro Trincee di Carlo Salsa (C. Salsa, Trincee. Confidenze di un fante, Milano, Mursia, 1982). In un passo relativo alla sua prigionia, l’ex tenente milanese scriveva: “I reclusi rimangono tutto il giorno coricati sulle brande che ingombrano le camerate basse come corsie d’ospedale per economizzare le energie succhiate alla fame. Alcuni raggomitolati come serpi, in silenzio, per reprimere i morsi delle budella: altri distesi in contemplazione, con una fissità maniaca negli occhi” (pp. 226-227).
Questo brano mi ha fatto tornare alla mente la storia di un prigioniero aradeino, raccontatami più e più volte da mia nonna. Un suo cugino, Luigi Pedone, subì la stessa sorte di Carlo Salsa, ovvero fu fatto prigioniero nel corso del 1918 e deportato in Austria, in uno di quei campi divenuti poi tristemente celebri per le condizioni di estrema indigenza in cui erano costretti a vivere i soldati internati.
Luigi Pedone, tuttavia, trovò nella baracca un oggetto che lo aiutò ad affrontare i sei lunghi mesi di prigionia che lo attendevano: un piccolo Sant’Antonio di ceramica. La statuetta divenne il suo più caro compagno di prigionia. Avvoltala in un fazzoletto, la mise nella tasca interna della divisa. Per sei mesi la tenne lì dentro senza toglierla mai.
Molti mesi dopo la fine della guerra, Luigi riuscì a tornare ad Aradeo. Arrivato a casa, chiamò in disparte la madre di mia nonna e le donò il Sant’Antonio oramai frantumato. Donandoglielo le disse: «Durante la prigionia te l’ho conservato con tanto amore. Ora è tuo». La mia bisnonna lo riparò e poi lo regalò a mia nonna, che ancora lo conserva.
Quello appena narrato è soltanto un piccolissimo episodio, in un contesto storico infinitamente più grande. Tuttavia, anche un racconto così breve può risultare significativo per comprendere come la spersonalizzazione causata dalla guerra e il dramma fisico e morale della prigionia, potessero essere affrontati dai soldati solo con il ricordo della famiglia o con l’attaccarsi alle piccole cose che esulavano dal contesto di terrore, devastazione e morte che li circondava.
Un gruppo di uomini, più o meno numeroso, in prigionia è smembrato dagli stenti e dalla solitudine. Alessio Palumbo ricorda un racconto di sua nonna riguardo un cugino prigioniero di guerra in Austria nel ’18. La strada da Aradeo al Nord Italia per combattere in nome di una causa neanche tanto conosciuta e sentita qui al Sud, è lunga, la strada dal Nord Italia all’Austria per arrendersi alle catene di una prigionia brutale è ancora più lunga. Come può un uomo semplice arrivare così lontano da se stesso, dalla sua terra, dalle sue visioni incruente del mondo e dai suoi affetti senza rischiare di perdere l’equilibrio mentale? La disumanizzazione è lenta e avida, a meno che non si accenda una luce nell’animo del recluso, una luce di fede e di speranza. Tutti noi, nella nostra fragilità, abbiamo bisogno a volte di vedere e di toccare, in poche parole di materializzare ciò di cui abbiamo bisogno, ed ecco che Luigi, il lontano parente di Alessio, concentra tutto questo in una statuetta di Sant’Antonio trovata (forse non per caso) nella baracca dove era confinato. A me viene in mente, a questo punto, il film di ‘Cast away’ interpretato da Tom Hanks nel 2000. Qui il protagonista, naufrago, sopravvive su un’isola deserta grazie all’umanizzazione di un pallone ritrovato insieme ai detriti del naufragio. Lo chiama Wilson, gli parla come a un amico, cosa che di sicuro avrà fatto Luigi Pedone con il suo Sant’antonio di ceramica, se ne affeziona e lascia che il suo istinto di sopravvivenza si rinvigorisca in virtù della inerte presenza di quello, il suo migliore ‘compagno di prigionia’. Luigi Pedone e il naufrago attuano la stessa strategia: sopportano ogni dolore e disperazione in nome dell’affetto che li lega al nuovo amico fino a sfidare l’ignoto, ovvero ritornare vivi al proprio mondo. Le onde violente dell’oceano non sono da meno del rimanere lucidi e sani in un lager e durante questo estremo percorso Wilson, la palla, si perde tra le onde e Sant’Antonio arriva ad Aradeo in frantumi. I pezzi di quest’ultimo vengono però ricomposti dalla nonna di Alessio, destinataria del prezioso dono della statua, allo stesso modo della vita infranta del povero Luigi.
Hai proprio ragione, Alessio, l’uomo è tanto corpo quanto spirito, e il tuo bel racconto lo dimostra a chiare lettere: lo sguardo che esige potenzia l’anima, l’anima che è potenziata regala vita, la vita donata si stempera oltre lo sguardo puntando all’infinito. Questo è l’aspetto sacro dell’uomo che non muore.
Cara Raffaella,
ti ringrazio per la splendida analisi e gli acuti parallelismi, che condivido lettera per lettera.