di Rocco Boccadamo
In un caldo pomeriggio d’agosto, dopo l’immancabile riposino, mio padre, sulla scia di un’antica consuetudine paesana e sapendo di renderci contenti, prese me e altri tre dei miei fratelli e sorelle – i più grandi – e ci condusse, mediante una passeggiata a piedi, sulla litoranea, esattamente nel tratto di costa denominato Marina dell’Aia, per farci fare, anzi “prendere”, un rinfrescante bagno nelle terse acque del nostro mare.
Attraversammo velocemente, con l’agilità tipica dei ragazzini, gli scoscesi viottoli della scogliera, approdando quindi sul bagnasciuga – in gergo dialettale “lapitu” – ricoperto sotto il pelo dell’acqua da uno strato erboso reso luccicante dalle carezze dei raggi del sole e caratterizzato, qua e là, da numerose buchette, non eccessivamente profonde, dette conche oppure “otuli”.
Ancora inesperti di nuoto, noi quattro giovanissimi incominciammo a stenderci sulle basse acque del bagnasciuga e ad entrare e uscire, appunto, dagli “otuli”, nel mentre mio padre faceva invece il bagno muovendosi e immergendosi nell’attigua distesa di mare più profondo, o “spunnato”, non senza badare, contemporaneamente, a tenerci d’occhio.
Trascorse così un simpatico e divertente intervallo, dopodiché – intanto che il sole si avviava al tramonto – ci preparammo ad asciugarci e a rivestirci.
Fu proprio in quella fase che accadde l’evento eccezionale: sulla superficie d’acqua all’altezza di una conca del bagnasciuga, io notai una sorta di gran macchia a raggiera, che, alla luce di lenti e ritmati movimenti, percepii essere non qualcosa d’inanimato, bensì una realtà viva, un grosso polpo, quasi una piovra.
Immediatamente, senza troppo strepitare, diedi voce dell’avvistamento a mio padre, il quale si trovava a pochi metri di distanza, dicendogli con l’espressione del volto “ora vedi tu il da farsi”.
Mi sembrò per la verità esitare un attimo, ma poi, mentre io e i miei fratelli ce ne stavamo in assoluto mutismo e respirando appena, notai che si accostò quattamente a quella conca, si piegò, abbrancò con ambedue le mani l’enorme massa e la tirò su. I tentacoli del polpo si avvinghiarono automaticamente alle sue braccia, ciononostante egli portò la testa del mollusco verso la bocca e la morse ripetutamente; subito dopo, iniziò a sbattere l’animale sugli scogli appuntiti, riuscendo in pochi minuti a stordirlo e a renderlo definitivamente immobile.
La scena fu osservata con attenzione da un giovanotto del paese che aveva la casetta di villeggiatura proprio in corrispondenza di quel punto della scogliera e che, con evidente rammarico, esclamò: “Giusto stamattina ho scorto anche io quel grosso polpo, però non sono riuscito ad acchiapparlo”.
Riposta l’eccezionale preda in un sacchetto di stoffa, e caricatasela sulle spalle, mio padre ci riportò a casa, dove fu ovviamente fiore di mostrare il pescato a mia madre.
Rammento benissimo, come se fosse stato ieri, che il giorno successivo, al “Serrito” del nonno Giacomo, si svolse l’annuale rito della vendemmia, con la partecipazione di oltre venti persone, tra familiari, parenti ed amici: orbene, il grosso polpo catturato alla Marina dell’Aia, cucinato con pomodori e patate in due pignatte di terracotta, fece ottima figura arrivando a costituire l’appetitosa e gustosa pietanza per l’intera comitiva.