Alcuni aspetti del presente, del passato e del futuro nel dialetto neretino

Jean François Millet, pausa di mezzogiorno

di Armando Polito

Se il presente e il passato propriamente detti hanno forme in tutto parallele a quelle italiane, il presente e il passato continuato se ne differenziano totalmente.

Diciamo, intanto, che in italiano il presente ed il passato continuato sono forme perifrastiche costituite dal presente o imperfetto del verbo stare+il gerundio del verbo principale, sicché per il verbo fare la prima persona singolare del presente indicativo continuato è sto facendo e del passato continuato stavo facendo.

In italiano, dunque, il secondo componente è il verbo principale coniugato al gerundio.

Le forme corrispondenti in neretino sono sta ffazzu per il presente continuato e sta ffacìa per il passato, sempre continuato.

Nel neretino, dunque, il primo componente (sta) è fisso nell’uno e nell’altro nesso, il secondo è il verbo principale al presente (ffazzu) o all’imperfetto (ffacìa). Che sta sia invariabile lo dimostrano, per esempio, tutte le altre persone (sta ffaci/sta ffacìì; sta fface/sta ffacìa; sta ffacìmu/sta facìamu; sta facìti/sta facìi; sta fannu/sta ffacìanu). Insomma, una situazione inversa rispetto all’italiano, in cui fisso rimane il secondo componente, cioè il gerundio.

Come spiegare lo sta neretino?

Una prima ipotesi mi porterebbe a supporre che nel nesso sia sottinteso un che; e qui le cose si complicano perché questo che potrebbe avere un valore dichiarativo e conferire a sta un valore impersonale (lo stesso che il verbo avere assume nel francese il y a tradotto con c’è): come se in italiano dicessi: (la situazione) sta (in modo che) faccio.

Una seconda ipotesi mi spingerebbe ad attribuire al che (sempre sottinteso) un valore dichiarativo soggettivo, come se in italiano dicessi: (il fatto che) faccio sta.

Mi si potrebbe obiettare: nell’uso normale la terza persona singolare del presente indicativo di stare a Nardo è stàe. Ma sta si usa nel Leccese ad Aradeo, Galatina, Taviano e nel Brindisino a Brindisi e Mesagne; la forma, perciò, potrebbe essere stata importata o adattata al costrutto particolare.

Quanto alle due ipotesi:  sarà che ne sono il padre, ma non ho una particolare preferenza né per l’una né per l’altra.

È tempo, dopo il passato e il presente, di pensare al futuro. Questo non esiste, almeno nella forma  organica dell’italiano. Il neretino, invece, si serve del presente propriamente detto o di quello progressivo, di cui si è appena parlato, con l’aggiunta di un avverbio (questo sì semanticamente proiettato nel futuro): crai fazzu lu pane (alla lettera: domani faccio il pane) oppure  crai sta ffazzu lu pane (domani farò il pane: alla lettera: domani sto facendo il pane); un’altra tecnica di formazione prevede l’uso del verbo abbìre (=avere) con connessa idea del dovere: àggiu ffare=ho (da) fare.

Nei fenomeni oggi passati in rassegna è il presente, comunque a farla da padrona, comparendo come verbo della proposizione principale in tutti gli esempi riportati. È da vedere in questo una nota psicologica di esorcizzazione di un triste, come il nostro lo è per certi aspetti, passato (e in questo un fenomeno parallelo, sia pure con trasposizione temporale opposta,  al passato continuato sarebbe l’uso, per la verità non molto frequente a Nardò, del passato remoto invece del passato prossimo) e come anticipazione scaramantica di un futuro che, per defizione, è incerto? La risposta la lascio all’esperto di psicolinguistica.

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13 Commenti a Alcuni aspetti del presente, del passato e del futuro nel dialetto neretino

  1. Il ‘che’ dichiarativo è reso nei dialetti salentini con ‘ca’, e questo non produce il cosiddetto raddoppiamento sintattico: lu pane ca fazzu ‘il pane che faccio’. Nella frase sta ffazzu lu pane si trova, sì, il r.s.
    L’origine dell’espressione è stata più volte dibattuta da vari autori: G.B. Mancarella, G.Rohlfs, O.Parlangeli, ecc.

  2. Caro Fabio, mi permetto di darti del tu perchè tu sei uno dei pochi (nonostante i miei sforzi…) che seguono le mie incursioni etimologiche. Reduce da una disavventura (più per i miei critici che per me…) recente sulla quale fatalmente ritornerò a tempo debito, debbo, però, farti presente che il “che” comparente nella tua frase è pronome relativo e non congiunzione dichiarativa. E poi: ti sarei grato se “sull’origine dell’espressione” tu mi volessi fornire (anche privatamente: polito.armando@libero.it) i riferimenti bibliografici da te citati. Anche nel caso in cui non fossero direttamente connessi con la questione dibattuta ti sarei, comunque, grato, perché c’è sempre, magari casualmente, da apprendere.

    • Il mio maestro della 3^ elementare mi avrebbe dato un colpo di riga (spesso cm2x2) sul palmo della mano!!!
      Resta il fatto che la congiunzione / il pronome ca non producono il radd.sint.
      Riportare la bibliografia (tra gli altri, vi aggiungo M.Melillo) sarebbe roba da certosini, tanto è dibattuta; per tutti, cito il Rohlfs alla pagina XVIII nell’Introduzione del VDS, alla nota 5, e sempre il Rohlfs ai paragrafi 132-136-786 della Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti.
      Piuttosto, è interessante trovare la motivazione semantica per cui nel salentino settentrionale è diffusa la costruzione “me sta ffazzu”, mentre nel salent. centrale si ha “sta mme fazzu”, entrambe diverse dal salent. merid. staci me fazzu (e nella forma ridotta aci me fazzu).

  3. Le varianti dell’amico Angelo confermano il valore “impersonale” di “sta”. Grazie.

  4. “Il neretino, invece, si serve del presente propriamente detto o di quello progressivo, di cui si è appena parlato, con l’aggiunta di un avverbio”

    e non solo avverbi: lu mese ci trase cugghiti li frutti=il mese prossimo raccoglierete i frutti; quandi divintati ‘ecchi chiangiti li tuluri=quando diventerete vecchi piangerete i dolori.

    Comunque la caratteristica dell’avverbio è davvero originale e non l’avevo mai riflettuta.
    E nel futuro anteriore “sta” diventa sempre “era”? Sarei andato se tu fossi venuto=era sciutu ci eri ‘inutu

  5. Perfetto l’esempio dell’alternativa all’avverbio. Nell’ultimo caso, però, si tratta di condizionale passato (il che spiega, nel dialetto, il trapassato prossimo).

  6. Rilancio la proposta di Fabio con un copia-incolla del suo commento di sopra: “Piuttosto, è interessante trovare la motivazione semantica per cui nel salentino settentrionale è diffusa la costruzione “me sta ffazzu”, mentre nel salent. centrale si ha “sta mme fazzu”, entrambe diverse dal salent. merid. staci me fazzu (e nella forma ridotta aci me fazzu).”

  7. Sorvolando sul “piuttosto”, ripreso al volo da Pier Paolo, di Fabio che sembra glissare sulle puntuali citazioni documentarie richieste (senza di loro non si va da nessuna parte), nell’attesa, rispondo ad entrambi.

    Non vorrei che gli autori citati si limitassero, come il Rohlfs, solo ad una descrizione del fenomeno e non alla ricerca delle sue motivazioni strutturali.

    Credo, comunque, che la giustificazione della presenza del raddoppiamento in “me sta ffazzu” da una parte e della sua assenza in “sta mme fazzu”, “staci me fazzu” e “aci me fazzu” dall’altra non sia di natura semantica ma fonetica. Tenendo presenti le forme staci/aci che lo stesso Rohlfs riporta al greco steko=stare fermo, il raddoppiamento potrebbe essere per compenso della caduta di -ci in “me sta ffazzu (da “staci me fazzu”), come sembrano confermare pure “sta mme fazzu” (dove per la diversa posizione dell’originario staci il raddoppiamento ha riguardato la m di me) e “staci me fazzu” e “aci me fazzu” (in cui non c’è raddoppiamento né di m- né di f- perché non è caduto niente).

    E tutto ciò non contrasta minimamente con le due ipotesi interpretative da me prospettate, alle quali, anzi, aggiungo una terza: una congiunzione, sempre la stessa, sempre sottintesa, ma questa volta di valore consecutivo: sta ffazzu=(la situazione) sta (in modo tale che) io faccio.

    • @armandop Non voglio glissare! Sono andato a ‘scurcugghiare’ nei cassetti della mia memoria senza tenere sotto mano i riferimenti bibliografici. Sono interessato soprattutto all’etimologia del dialetto salentino, un po’ meno alla sua grammatica storica che è alquanto tosta!
      Comunque, rispondendoti a braccio, il tipo “sta ffazzu” rientrerebbe in quel tipo di costruzioni usate per connotare l’aspetto verbale e che nell’italiano è espressa dalla perifrasi progressiva “stare, andare+gerundio”. Il salent. “sta ffazzu” risponderebbe, però, ad una costruzione latina o romanza STO AC FACIO con il significato di “sto e faccio”, come il salent. scia’ ffacimu sarebbe da * “sciamu a ffacimu” letteralmente “andiamo e facciamo” risalente ad una costruzione latina o romanza VADO AC FACIO. Nel salent. occorre un’altra formazione simile: “mo’ pigghiu e mme ndiàu” letter. “ora piglio e me ne vado”.
      Infine, so benissimo che è roba da studiosi della grammatica non solo italiana ma meridionale, e perciò mi sono limitato a fornire solo dei nomi di illustri Autori.

  8. Il griko stèo ce pìnno (letteralm. “sto e bevo”) è testimonianza dell’ interscambio tra il romanzo salentino e il griko (ad altri la ricerca e la continuazione di tale evidenza sintattica!). Faccio solo notare che il fonema /k/ del greco stèko è caduto nel griko stèo e non lo metto per niente in relazione al salent. staci/aci.
    Non voglio ripetere il grossolano errore di non riportare i riferimenti bibliografici, ma mi sovviene, scurcugghiandu nel cassetto della mia memoria, che per il salent. merid. “staci fazzu” si teorizzò la grafia unita di un ipotetico * “sta’ ci fazzu”, forma ridotta di “stàu ci fazzu”, letteralm. “sto che faccio”.
    Quest’ultima, a me non convince affatto, ma forse farebbe un po’ contento il prof. Armando (a cui mando un ossequioso saluto).

  9. Rispondo cumulativamenbte ai due messaggi.
    Il griko “steo ce pinno” è l’evidentissima trascrizione del classico “steko kài pino” e, dunque, non mi pare che si possa addurre come “testimonianza di interscambio tra il romanzo salentino e il griko” se non a livello strutturale . Mi pare invece interessante, per sintetizzare, il tuo mettere in campo “ac” , che non può certo essere considerato, comunque, come trascrizione del greco kài. In riferimento all’ultimo periodo delll’ultimo messaggio debbo ribadire, ammesso che non lo sia sia capito da tempo…, che io rimango contento solo quando un problema (e non solo di natura filologica…, sono fatto così) risulta risolto in modo inequivocabile; e non avevo certo la presunzione di averlo fatto. Un caro, altrettanto ossequioso, saluto.

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