di Giuletta Livraghi Verdesca Zain
…prudenza voleva che i frutti anomali non venissero spiccati con le mani ma staccati a colpi di ruéccu (bastone a uncino usato per abbassare i rami più alti in sede di raccolta) e, per sani e succosi che fossero, buttati nella concimaia o più scrupolosamente interrati in uno dei punti marginali del campo. Se poi l’anomalia non era limitata al singolo frutto ma – caso rarissimo e perciò più inquietante – la si riscontrava nell’intera produzione dell’albero, paura e relativo comportamento venivano a sistemarsi su un ben diverso registro.
L’esempio più emblematico lo si aveva quando un fulmine, colpendo un ciliegio, un susino o un giuggiolo, ne incideva verticalmente un tronco, intaccandolo nel midollo pur senza provocarne il completo disseccamento: sorretto dalle linfe periferiche, l’albero continuava a vegetare e a fruttificare, ma a causa del depauperamento midollare non era in grado di illegnire l’endocarpo, per cui le ciliegie, le susine o le giuggiole, al posto del regolamentare nocciolo, presentavano solo un nucleo mucillaginoso.
Ora, per i contadini, psicologicamente calati nel grande meccanismo delle riproduzioni e perciò particolarmente sensibili alla pienezza delle semenze, constatare che la caduta di un fulmine – già di per sé archetipico simbolo di punizione divina – aveva provocato una così drastica manifestazione di sterilità era come ritrovarsi a mmienzu a nnu zzunfiòne (in un turbine) che, stando alla simbolica del seme, li avrebbe di certo mminisciati o an siccu ti terra o a mmuzzàta ti razza (sbattuti nella disgrazia o di una carestia o dell’estinzione della loro discendenza).
A loro criterio, infatti, la minaccia espressa dall’inconcepibile assenza del nocciolo veniva a colpire quelle che erano le ragioni fondamentali della presenza contadina nel mondo – procreazione e fertilizzazione della terra -, funzioni l’una di supporto all’altra e ambedue vincolate alla dominante del seme, visto quale privilegiato mezzo di partecipazione creaturale ai superiori disegni di Dio.
Il biblico “Crescete e moltiplicatevi” trovava pertanto traduzione in un “Siate molti per accudire alla terra”, quasi che al concetto della natura posta al servizio dell’uomo corrispondesse, per logica, quello dell’uomo posto al servizio della natura.
Una convinzione che, affiorando nei gesti e nelle parole in genuinità di proposizione, sembrava allargare un orizzonte di segni e avventi sacrali, nella cui orbita nascite e germinazioni venivano a trovarsi sullo stesso piano, preziosi tasselli di un unico mosaico di fronte al quale i contadini erano sempre pronti a scoprirsi la testa.
Per comprendere quanto profondamente vivessero il connubio uomo-natura, bastava osservarli mentre con enfasi soppesavano la spigatura delle erbe marzaiole per trarre, dalla minore o maggiore pienezza, i pronostici dell’annata; sorprenderli mentre in auspicio di crescita posavano sul sesso del loro primo nato maschio un germoglio di grano fogliato; oppure ascoltarli quando, vestendo i panni di padri-patriarchi interessati alla perpetuazione della razza, raccomandavano a figli e nipoti di prediligere, fra le tante varietà di fichi, li fiche pacce o li fiche jétte, che per essere a riddhru chinu (quelli con i semi più grossi) si riteneva fossero di benefico apporto alla virilità. “Ricurdatibbe ca la purpa ete femmina e llu riddhru ete màsculu!…” (“Ricordatevi che la polpa è femmina e il seme è maschio!…”), ripetevano con didattica premura, e se figli o nipoti erano in età di prendere moglie, non mancavano mai di concludere in tono ambiguo: “Màsculu ete lu riddhru… e cchiù cchinu ete, cchiù mmàsculi bbi face!” (“Maschio è il seme… e più grosso è, più maschi vi fa!..”), sottintendendo in quel “più maschi vi fa” e il dono di una maggiorata potenza virile e la caratteristica di far generare figli maschi.
Nel suo insistere sulla mascolinità del seme, chiaramente decantandone la potenzialità riproduttiva, la frase viene a elucidare quelli che, di contrasto, erano i termini di valutazione della sterilità, cioè come questa, odiata e disprezzata nella sua manifestazione femminile, diventasse addirittura inaccettabile se rapportata all’uomo, elargitore di seme – emblematico principio di vita – e perciò da ritenersi infallibile nella sua capacità riproduttiva. Una conclusione assolutistica che in un certo qual modo veniva riaffermata anche in sede di coltivazione, dove il mancato germoglio raramente si addebitava a un difetto congenito del seme, preferendo puntare su un negativo di concorrenze esterne: erano state di certo le formiche a portarsi via i grani seminati e non germogliati; lu mandràle (grosso bruco) aveva nottetempo rusicàtu lu cìgghiu (rosicchiato il germoglio ); ladre com’erano, li mite (le gazze) avevano approfittato ti la terra pésule (della terra da poco sarchiata, leggera) per fare buco col becco e riempirsi lu quazzu ti simiénti (lo stomaco di semi); o, a seconda dell’andamento stagionale, la colpa era da addebitare a lla gnofa ntustàta (all’indurimento della zolla) o a un’improvvida nfucata t’acqua (marcitura del seme per la troppa pioggia).
Detto questo, si può ben comprendere quale fosse lo stato d’animo dei contadini di fronte a un’abnorme fruttificazione: il nucleo mucillaginoso riscontrato al posto dei semi altro non era che l’impronta inequivocabile di una maledizione divina, stando alla quale – in trasparente suggestione biblica – c’era da aspettarsi un severo castigo, quello appunto di una carestia o di una estinzione della razza. E poiché il grado di punizione implicitamente stabiliva l’entità della colpa, per cui una sventura a largo raggio – quale poteva essere una carestia – denunciava una pluralità di peccatori, a mettersi in allarme non era soltanto il diretto interessato, ossia il coltivatore del campo dov’era piantato l’albero, ma tutti quelli che venivano a conoscenza dell’accadimento, in ognuno dei quali sorgeva il sospetto di aver concorso all’aggravio con le proprie trasgressioni e quindi di trovarsi annoverato fra i punibili. Né diversamente si poneva il discorso circa la paventata estinzione della discendenza, il cui mezzo di attuazione poteva essere quello di un’epidemia, di un terremoto o di chissà quale altra calamità o coinvolgimento collettivo.
Partecipare all’estirpazione e alla bruciatura del famigerato albero era pertanto, più che atto di solidarietà, preciso interesse a misura individuale e comunitaria, intendendo compiere, attraverso i due tempi dell’azione, e il riconoscimento-pentimento (estirpazione dell’albero come estirpazione del peccato-causa) e il respingimento dell’annunciato castigo (bruciatura come annullamento degli effetti, ovverosia depurazione dal male)…
Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994 (pagg. 245-248).
Questo brano, corredato da immagini, è stato successivamente pubblicato – su una pagina intera – da “LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO”, martedì 28 ottobre 1997.
Bellissimo testo, e per il soggetto trattato e per l’eccezionale stile narrativo!
Marcello fai bene ad onorare in questo modo la memoria della compianta Autrice.
Grazie, MarcoAmedeo, per la positività del commento, ma in coscienza non posso non darti ragione, visto che io della Giulietta sono stato il fan più sfegatato e nello stesso tempo il critico più spietato.
Per poterla apprezzare e amare a tutto tondo si dovrebbero conoscere tutte le sue sfaccettature letterarie e artistiche. E’ stata una creatura dal grande talento e dalle virtù eccezionali.
Marcello è un suo ammiratore ed io mi vanto per averlo come amico.
Anche tu, MarcoAmedeo, tu che apprezzi il lavoro della mia Giulietta, entri automaticamente a far parte degli amici del mio cuore.
Grazie carissimo Nino che con le tue parole mi hai commosso. Spero che grazie a te e all’amico comune Marcello potrò apprezzare ulteriori pagine della indimenticata signora Giulietta. Grazie davvero!
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