di Massimo Vaglio
Nel paesaggio delle splendide e importanti produzioni casearie pugliesi la provincia di Lecce assume un po’ la posizione di fanalino di coda, ciononostante difende ancora il primato per quanto riguarda i formaggi pecorini, la cui produzione vanta una consolidata tradizione supportata da un ancora ingente patrimonio ovino.
La produzione è costituita da forme cilindriche del diametro di 20-30 cm con scalzo di 6-12 cm a piatti piani, crosta giallognola che vira al nocciola con la stagionatura, recante l’impronta della fiscella.
Nei primi decenni del secolo scorso nella classifica di gradimento e diffusione fra i pecorini italiani tipici, subito dopo il pecorino romano, il pecorino sardo tipo romano e il fiore sardo, veniva appunto il Maglie-Poggiardo ovvero il pecorino prodotto dalle fiorenti masserie di questo comprensorio, la cui produzione intraprendenti commercianti avevano con successo organizzato, provvedendo allo stoccaggio e alla commercializzazione; la stessa sorte seguivano i non meno validi pecorini d’Arneo anch’essi conosciuti e ricercati in tutti i più importanti mercati.
Ben diversa la situazione attuale. Dall’ultimo censimento dell’agricoltura risulta che nel territorio di Maglie insistono attualmente appena quattro allevamenti ovini, quattro a Scorrano e nessuno nel territorio di Poggiardo e tante antiche masserie, da lungo tempo abbandonate, versano ormai in rovina, tanto nel comprensorio di Maglie, quanto in quello dell’Arneo, ove comunque insistono ancora più di un centinaio di aziende.
Le mutate condizioni socio economiche, e tutta una pur giusta serie di adempimenti e di normative imposte dalla Comunità Europea, specialmente per quanto riguarda l’adeguamento alle norme sanitarie delle aziende, hanno disincentivato molti allevatori a proseguire questa millenaria attività.
Il pecorino di Maglie e il pecorino d’Arneo non presentano sostanziali differenze nella tecnica di produzione da quello prodotto nel resto della regione: il latte crudo di pecora, viene portato, a fuoco diretto, alla temperatura di 36‑37°C, quindi addizionato di caglio liquido di agnello. La coagulazione avviene in 30‑45 minuti e dopo 15 minuti circa di rassodamento, la cagliata viene rotta con uno spino di legno (rùetulu) fino alla dimensione di seme di pisello o poco più, lasciata riposare per qualche minuto, quindi estratta e trasferita in fiscelle di giunco che vengono lasciate spurgare e pressate manualmente per favorite lo spurgo del siero. Qui si rileva la prima differenza tecnica sostanziale: mentre nel resto della regione le forme vengono sottoposte a scottatura immergendole per qualche secondo nella scotta, ossia nel siero caldo a 80‑85°C, quindi sottoposte a salagione a secco e trasferite nei locali di stagionatura, nel nostro caso viene omessa la scottatura e le forme, dopo essere state sottoposte a salagione, invece di essere trasferite nei freschi locali di stagionatura vengono mantenute nel tepore dello stesso locale di lavorazione, detto “merce”, almeno sino al raggiungimento del cosiddetto stadio ceroso (ispessimento della crosta che vira dal bianco candido al giallo carico) evitando persino di tenere la porta aperta più dello stretto necessario, ciò per evitare la cosiddetta intisciatura, termine mutuato dalla medicina popolare e che sta ad indicare la screpolatura delle forme, un po’ come avviene alle delicate mani dei bambini, se non adeguatamente protette, durante le fredde tramontane invernali.
Ma a conferire le particolari ben distinte e apprezzate caratteristiche organolettiche concorre anche l’inarrivabile sapidità dei pascoli salentini, sferzati dai salsi venti marini e soprattutto la specifica razza ovina.
Il Salento ha infatti una sua razza ovina autoctona, la Moscia Leccese, derivata dall’antico ceppo di razza asiatica, Siriana del Sanson, diffusa nei Balcani sino al Danubio. Le pecore di questa razza, distinguibili per la caratteristica faccia nera, sono di taglia piccola (30-40 kg.), poiché adattate da secoli alla povertà degli aridi pascoli salentini e a resistere all’intossicazione da fùmulu (Hypericum humifusum).
Hanno la caratteristica testa piccola dal muso allungato, mirabilmente adattato a brucare negli anfratti delle rocce, tra le pietre e soprattutto dagli irsuti cespi della gariga e della macchia mediterranea, da cui carni e latte traggono quel di più, indimenticabile, distinguibile anche da chi ha avuto la fortuna di assaporarli solo poche volte.
Queste pecore, riescono a sostentarsi persino brucando le distese di minuscole pratoline (Bellis perennis L.) che imbiancano in pieno inverno anche i più ingrati pascoli rocciosi del Salento, e a ricordarlo anche in questo caso è stato coniato un curioso adagio:
«Quandu esse lu fiuriceddhu,
no nd’hae male lu picurieddhu».
Oggi, purtroppo, le greggi costituite con ovini di questa pregiata razza sono molto poche (tanto che si teme per la sopravvivenza della razza) in quanto sostituite in modo improvvido e spesso ingiustificato con greggi di razza Sarda o Comisana e con greggi costituite da meticci ottenuti incrociando la Moscia con le pecore di razza Bergamasca, che hanno una mole molto maggiore e quindi una prevalente attitudine alla produzione di carne, Queste, sono di contro pessime lattifere e sono animali non ecocompatibili con il nostro ambiente e ovunque si pone lo sguardo, visitando la campagna salentina, sono visibili i danni provocati dalle fameliche fauci di queste bestie alle colture e all’ambiente.
Un settore, quello dello della zootecnia salentina, che sconta anni di diffuso disinteresse tanto della parte politica, quanto degli enti e delle associazioni di categoria, snobbato dall’imprenditoria locale che ha preferito esplorare modelli economici nuovi, privi di un retroterra culturale, anziché cavalcare le, collaudate, e perché no, prestigiose, antiche vocazioni agro pastorali del territorio. Con buon senso, si sarebbero potute richiedere le deroghe in materia sanitaria sulla scorta di quanto avvenuto in altri contesti o si sarebbe potuto pensare alla creazione di più razionali caseifici sociali. Quel che certo è che, nonostante tutto, quest’antica e nobile arte continua; ne scaturiscono comunque formaggi ricercati sia per le caratteristiche organolettiche sia per le nuove riconosciute proprietà nutrizionali proprie degli animali al pascolo quali: il basso contenuto di colesterolo, l’elevata presenza di principi antiossidanti e di acido linoleico coniugato, che nei derivati degli animali al pascolo è triplo rispetto a quello contenuto nei derivati degli animali tenuti in stalla.
E’ comunque anche vero che difficilmente potremo più gustare gli stessi formaggi di quando, arrivando per una strada polverosa alla masseria, sotto l’antico portico di conci a vista, si vedevano perfettamente allineate delle strane forme rinsecchite, simili a piccole otri, dall’aspetto repellente e inquietante, che venivano guardate dai visitatori occasionali con diffidenza. Erano gli abòmasi degli agnelli, salati e messi ad essiccare dagli stessi massari per produrre il caglio naturale, peraltro immortalati in un gustosissimo “cuntu” di Papa Cagliazzu.
Il pastore, rientrando con le greggi, portava una fascina di frasche selvatiche con cui alimentava il fuoco sotto il càccamo (caldaia di rame stagnata internamente che serviva per la cagliata). Il tutto avveniva in uno stesso ambiente, nella cosiddetta merce: preparazione, salatura con il sale marino, spesso raccolto direttamente dalle conche delle scogliere, e prima stagionatura sulle assi di legno imbiancate da decenni d’essudazioni saline; il tutto inalterato, come in un rituale che si ripete da centinaia d’anni.
In questi ambienti, di un candore abbacinante per le frequenti imbiancature a calce ma quasi asfittici, perché muniti spesso solo di anguste feritoie schermate da fitte reti, e sovente fumosi, i formaggi acquisivano un’ aroma particolare, forse anche una blanda affumicatura che conferiva quel di più, quel particolare…
E se è vero che le grandi specialità si ottengono con la riproduzione meticolosa di tanti piccoli dettagli, ho fondati motivi per ritenere che tali sapori appartengono purtroppo ormai inesorabilmente al passato.
Massimo è, come sempre, assai preciso e dettagliato. Mi permetto, da esperienza personale esperita in giovane età, di aggiungere un piccolo invito sulla “produzione fresca” che già da questo periodo cominciava a prepararsi (giuncate e pampanelle) e sul “pascolo te ristoccia” che produceva il miglior cacioricotta che si conosca …
Ciao a tutti!
La mia famiglia è di origine pugliese e ho conosciuto queste prelibatezze nell’infanzia. Adoro il pecorino pugliese (stagionato, ma anche fresco): dà il “tocco magico” e trasforma anche a un banalissimo piatto di pasta o riso al burro. E che dire delle “pampanedde” e delle giuntate: semplicemente … semplici e fantastiche!
Seguo con interesse il vostro sito da quasi un anno. Ho viaggiato molto per lavoro e studio in paesi europei ed extra-europei; ora vivo in Germania per gli stessi motivi (anche se il mio sogno è quello di potermi trasferire “giù”). E ritengo sia un vero peccato che la produzione salentina non abbia la giusta rilevanza che hanno gli altri formaggi e prodotti italiani. Fa male vedere oliveti e vigneti estirpati, per installare “mostri di vetro nero” (pannelli solari) o una discarica per rifiuti prodotti dalle altre regioni “industrializzate” che devastano irreparabilmente il territorio per portare vantaggi economici a pochi, i quali vivono altrove.
Il futuro è nella riscoperta e valorizzazione delle tradizioni e del territorio che, “eco-compatibilmente”, deve essere difesa e non annientata da speculazioni ed interessi economici di pochi.
Ho lavorato molto anche nel turismo all’estero, dove c’è una concertazione consolidata tra industria ricettiva, quella dei trasporti aerei e le autorità turistiche che, con pacchetti turistici studiati ad hoc, riesce ad attrarre flussi turistici notevoli anche nei fine settimana. In Puglia, ci sono tre aeroporti (Grottaglie, Brindisi, Bari) che “si fanno la guerra” invece di cooperare, per sviluppare il turismo. Intendo con ciò, anche il movimento dei fine settimana e dei ponti brevi nel corso dell’anno, non solo nei mesi estivi. Perchè, nonostante il costo del biglietto aereo, costa meno un fine settimana nelle città europee o nei paesi esteri del turismo balneare? Se fosse stato possibile (= nel mio caso, se l’aeroporto di Grottaglie avesse funzionato tutto l’anno, non solo in estate), sarei ritornata volentieri più volte l’anno per vedere la famiglia e parenti. E come me molti altri salentini e pugliesi o, semplicemente, italiani e stranieri che vorrebbero conoscere questa “meraviglia”, per lo più sconosciuta. Il fine settimana o il ponte nel Salento non sarebbe utopia, se bastasse un volo di un’ora o due al massimo (= non otto o nove ore di treno, solo per andare!?!) e una sinergia positiva del sistema industria ricettiva-vettore aereo-autorità turistiche. Il turismo, se ben organizzato e gestito, porta soldi e crea posti di lavoro tutto l’anno. Ciò favorirebbe anche la movimentazione e collocazione dei prodotti locali in Italia e all’Estero, con ulteriori benefici per l’intera l’economia locale e regionale.
Perchè, all’estero in TV, si deve sentir parlare e vedere immagini della Puglia quasi unicamente in connessione con sbarco di immigrati clandestini e conseguenti situazioni di degrado territoriale che fanno arrivare alla conclusione che è meglio “stare alla larga e non rischiare le vacanze”?
Scusate, come si suol dire, mi è scappata la tastiera!
Complimenti per il sito e buona domenica.
Viel Spaß & Ciao!
Vincenza
Grazie gentile Vincenza per seguirci da lontano e grazie per i complimenti, che vanno a tutti i volontari collaboratori che si spendono per questo spazio che sta conquistando sempre più ammiratori. Ma soprattutto, e questo ci rende particolarmente felici, sta diventando un luogo di ritrovo per i tanti salentini sparsi nel mondo. Sono pagine scritte con il cuore, senza obbedire a leggi di mercato, volutamente libere da pubblicità. Per questo vi chiediamo ancora una volta di diffondere il nostro link tra le vostre conoscenze, certi che renderete un servizio di informazione a quanti ancora non hanno avuto modo di conoscerci e ve ne saranno grati, come è già successo per centinaia di persone che ce lo comunicano privatamente.
Riguardo alle tue condivisibili perplessità e sacrosante considerazioni più volte abbiamo scritto che forse tutto questo che di “strano” accade sotto i nostri occhi è voluto da chi ci governa. Mi riferisco in particolare alle amministrazioni locali, più che centrali, che dovrebbero esporre nelle sedi opportune i problemi che ben conoscono. Un esempio tra tutti: perchè il biglietto aereo Brindisi Roma dovrebbe costare 10 volte più di un Milano-Roma? proprio oggi sentivo in TV che in provincia di Milano si sono inventati “la via lattea”, per dare risalto alla produzione latteo-casearia di una provincia che sappiamo bene ha tutt’altra vocazione. Da noi stanno distruggendo il paesaggio per ospitarvi pannelli, con un danno eterno del nostro suolo, la cui terra rossa per secoli ha prodotto il meglio dell’agricoltura italiana.
Impossibile affrontare in poche righe i numerosissimi problemi che sono oramai divenuti atavici, ma dico solo che il cambiamento parte da ognuno di noi. Intanto prendiamo consapevolezzaa delle tante storture… e devo dire che si sta registrando un risveglio delle coscienze, con movimenti spontanei che in tutto il Salento si fanno sentire (tra i tanti vedi il caso Porto Miggiano, il NO-TUB di Nardò, la sentenza ammazza ulivi della Regione). C’è tanto da fare e spigolare.
Un caro saluto, sperando di leggerti ancora
Sicuramente avrà già letto l’ultimo articolo di Elio Ria, ma ripropongo il link nel caso in cui fosse sfuggito. Un vero “manifesto” per il Salento:
http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2012/03/03/salento-un-altro-luogo-dellaltrove/
Come ho scritto, ho lavorato a lungo nel turismo e sviluppato pacchetti ad hoc, per sostenere e promuovere il business dell’industria ricettiva all’estero (in Italia sono stata snobbata). Questa è la nostra situazione (scusate se mi identifico) vista dal mio punto di vista: la tendenza prevalente è la vacanza breve, più volte l’anno; i weekend e ponti (cosiddetto turismo “toccata e fuga”) sono amatissimi e diffusissimi in Europa. Voglio fare una breve vacanza in Puglia:
* Aereo
– Perchè un volo Düsseldorf-Brindisi mi può costare 15 euro (14,99 euro in verità, anche posso viaggiare con un solo bagaglio a mano che non superi gli otto chili, se voglio evitare sovratasse) e dura 2 ora e 20 minuti al massimo? Oppure può costare dai 600 euro e anche più e dura dalle 4 ore e 50 minuti e più (perchè manca il volo diretto)?
– Perchè un volo Milano-Brindisi mi può costare 10-30 euro (anche posso viaggiare solo con un bagaglio a mano che non superi gli otto chili, se voglio evitare sovratasse) e dura 1 ora e 10 minuti al massimo? Oppure può costare dai 200 euro e anche più e durare dalle 3 ore e più (perchè non c’è il volo diretto)?
* Treno
– Tratta Milano-Brindisi con costo minimo di 60-70 euro e durata minima del viaggio di 8-11 ore.
– Lasciamo perdere la tratta dalla Germania!?!
Le 4-5 ore per l’andata e altrettante per il ritorno in aereo (il treno non è un’alternativa considerabile) riducono o, addirittura, annientano l’interesse per la destinazione pugliese. Soprattutto se l’unica opzione disponibile è Bari ed io, per esempio, devo andare a Taranto (meglio sarebbe aereoporto Grottaglie) oppure Brindisi e Lecce (quindi aeroporto di Brindisi). Vale al dire, se sono fortunata: ho altre due ore di treno e mi servono 10-20 euro ancora.
Come è possibile, in questa situazione, sviluppare e sostenere l’industria turistica e il suo “indotto” tutto l’anno? Ci sono tre aeroporti per garantire spostamenti veloci: bisogna farli funzionare tutti e a pieno ritmo, con azioni promozionali studiate all’uopo, superando stupide e dannose rivalità. Anche il turismo “toccata e fuga” (e non solo quello dei mesi estivi) può essere la forza trainante e propulsiva dell’intero sistema economico pugliese, creare posti lavoro e sviluppare nuove opportunità occupazionali anche nei settori alimentare, artigianale, agricolo, manufatturiero, artistico e culturale.
Fede, speranza e carità? Continuerò a seguire con interesse e promuoverò con piacere questo sito.
Viel Spaß & Ciao!
Vincenza
Se io fossi una ‘Moscia leccese’ (dico la pecorella salentina, intendiamoci!) mi allerei con Massimo per ricordare la mia storia come una favola e per conoscere la mia sorte sempre più simile a un vaticinio. Forse mi sentirei tradita e delusa, ma leggendo ciò che Massimo, Vincenza e Marcello scrivono, avrei un motivo in più per sperare in un cambiamento. Tutto ciò che offre una terra è un carattere che le conferisce la fisionomia grazie alla quale è riconosciuta e riconoscibile. Incrociare razze di ovini perdendo l’identità dei propri sapori, per esempio, sa tanto di globalizzazione e di appiattimento culturale. Chissà, Vincenza, se un giorno ci ritroveremo in posti tutti simili tra loro, magari ricordando vagamente il nome di una regione, di un luogo o di una città: pannelli fotovoltaici, distese di cemento, mari inquinati, flora tisica e rada, bestiame clonato. Allora sì che non servirebbe neanche più un biglietto aereo per tornare a casa! Meno male che Massimo ci ricorda i nostri trascorsi con informazioni interessanti su tecniche di produzione casearie dal sapore di vita, passione e speranza. Meno male che Massimo ci fa fare un silenzioso test sugli odori e sui sapori della nostra terra: ad occhi chiusi, sapremmo riconoscerli? Difendiamo allora ogni specialità del nostro essere individui e quindi terra, oltre che il nostro orgoglio! L’rgoglio nasce dalla dignità di essere, difendere, conservare e valorizzare e non dalle torri di Babele fatte di parole sterili e contraddizioni prolifiche! Una forma di formaggio pecorino sia quella sfera di cristallo capace di mostrarci il futuro attraverso la qualità del nostro agire presente.