di Michele Stursi
Sorseggio il mio tè fumante seduto su una poltrona, con le gambe accavallate, e penso. Chiara è nello studio e riceve un paziente. Mi hanno dimesso stamani e sono ancora molto stanco e provato. Nonostante ciò riesco a trovare la forza di pensare.
Mi guardo intorno come se cercassi qualcosa, un appiglio per potermi inerpicare tra i ricordi e giungere così alla mia infanzia. Tutto è diverso: il lettone di mamma e papà sormontato da un’enorme effigie del Buon Pastore che custodisce le sue pecorelle è stato sostituito da un divano di pelle nera; sulla parete di fronte a me una donna anziana, sullo sfondo di “Alienata monomane del gioco” di Théodore Gericault, fissa un punto vuoto, forse guarda proprio me. Mancano anche il mio lettino e quello di Chiara; manca il lavabo in terracotta bianco, venato da piccoli fiorellini rosa e gialli, mancano i freschi e profumati asciugamani in lino che in realtà non usavamo mai per non rovinarli, e ci sfregavamo rumorosamente il viso con vecchi panni di spugna.
Niente, non è rimasto niente.
Manca il vaso da notte che papà sistemava sempre accanto al lettone prima di andare a dormire, manca il vecchio comò con i suoi enormi cassettoni, che facevano anche da culla. Sono imprigionato in questo presente che si frantuma giorno dopo giorno nell’urto contro l’inevitabile futuro: la morte. E intanto giaccio in un angolino nella mia prigione e osservo, impotente, quest’abominevole scenario.
Penso.
Se si riuscisse a vivere anche solo la forza del pensiero, chissà quanti anni avrei ora.
Ho passato la mia vita a leggere, a meditare, e solo adesso mi rendo conto quanto sia inutile il lavoro meccanico della mente se poi non si trova il coraggio di relazionarsi con gli altri, di confrontarsi.
Il pensiero di per sé non ha alcuna forza se non in sinergia con l’agire.
Se invece di stare lì a putrefare come letame su quella poltrona, assorto ad occhi chiusi tra le dolci parole dei due promessi sposi del Cantico dei cantici o tra le poesie di Neruda, avessi cercato con tutto me stesso l’amore, ora saprei con chi confidarmi.
Se quelle parole invece che cullarmi mi avessero spronato a issarmi, mettere cappello e impermeabile, afferrare il bastone e uscire fuori a cercare la mia amata, tra la gente, ora non sarei di certo qui nella speranza di riuscire a dare un ultimo soffio a questa mia sterile vita.
“Mi alzerò e farò il giro della città;
per le strade e per le piazze;
voglio cercare l’amato del mio cuore
L’ho cercato ma non l’ho trovato”.
Non ancora, ma non mi arrendo.
Si sprigiona un grido dalla mia anima disturbata e mi convinco sempre più che non posso, anzi non devo mollare. Finché il mio cuore avrà vigore per inondare il mio vizzo corpo, io cercherò disperatamente di amare.
“Se un giorno il tuo cuore si ferma,
se qualcosa smette di bruciare per le tue vene,
se la voce dalla bocca ti esce senza divenire parola,
se le tue mani si scordano di volare e s’addormentano…”,
Basta. Prima che accada tutto ciò io avrò già “… baciato la tua folle bocca fredda, abbracciato il grappolo perduto del tuo corpo e cercato la luce dei tuoi occhi serrati”. Morirò per sempre nell’eternità di un bacio.
Cerco di non fissare lo sguardo sofferente e stremato dalla pazzia di quella donna. Ora basta serbare vecchi rancori verso me stesso: ho bisogno di vivere, anzi di rivivere.
Mi sollevo a fatica dalla poltrona facendo forza sui braccioli, che si sgonfiano sotto il mio peso. A passi lenti, con timore, mi accosto alla finestra e guardo fuori. Per strada si vedono dei bambini rincorrersi e urlare, una mamma sull’uscio di casa li osserva, un’anziana signora ricama seduta su una piccola sedia impagliata e un contadino consegna alla moglie una cassetta piena di colorati ortaggi. Porto la mano al petto e, attutito dalla maglia di lana, dalla camicia di cotone bianco e dal gilet grigio antracite, sento il battito sordo di un pugno di cellule contrarsi e rilassarsi: il mio cuore ha ripreso a battere.
tratto da Il Mangialibri di Michele Stursi, L’Osservatore Nohano, 2010
Uno sguardo fuori dalla finestra defibrilla un cuore letargico e gli rende primavera. L’uomo è un animale sociale, si sa, ed è per questo che qualunque gesto compia senza effetti sugli altri e qualunque pensiero meraviglioso formuli soltanto nella sua mente, egli si sentirà solo, irrealizzato, perso. Se poi a questo si aggiunge la mancanza di un amore, il quadro clinico si fa più serio. Il mondo è fatto di metà in cerca di altre metà, di interi che anelano l’eterno, di cuori d’inverno in attesa del disgelo. E’ una legge della natura. Michele cuce sul protagonista ognuna di queste verità e le rende splendidamente reali attraverso la contemplazione di oggetti e sensazioni che gli rimandano lo sfocato senso della sua realtà. Nascono così ricordi familiari, rimpianti virili e passioni umane. L’amore, così come il non amore, poetizza l’istinto e la ragione, accende e spegne speranze come giorni e notti impazziti. Ma è l’autore chiamato a far luce ed egli lo fa premendo l’interruttore di un principio portante: amare se stessi per amare il mondo.