Tutto, ma proprio tutto, sui cardi spontanei del Salento

 

di Massimo Vaglio

Sovente ci è capitato di indicare quello salentino come uno dei popoli che maggiormente ha saputo utilizzare a fini alimentari anche le  risorse più neglette, spesso spontaneamente offerte da habitat  naturali non particolarmente lussureggianti e generosi.

Uno dei casi più emblematici è rappresentato dall’utilizzo delle scoraggianti e ispide piante di cardo selvatico, dalle quali la tradizione gastronomica locale ha saputo trarre piatti organoletticamente squisiti, nonché dalle ottime proprietà nutrizionali e virtù salutistiche.

Quelli che vengono comunemente indicati come cardi selvatici sono invero delle robuste piante tutte appartenenti alla grande famiglia botanica delle Asteraceae, spesso di forme e specie distinte, ma tutte accomunate dalla vistosa presenza di spine più o meno terrifiche.

La più imponente e vistosa di queste specie è il cardo selvatico (Cynara cardunculus L.) conosciuto in gergo salentino come cardone. Questo robusto antenato del carciofo e dei cardi coltivati, ha come habitat preferito i margini delle strade, i luoghi maceriosi, ma è frequente anche negli incolti e nelle radure erbose. Questo nobile ortaggio spontaneo a diffusione pressoché circummediterranea, si presenta con un aspetto a dir poco terrifico, spinoso, com’è in ogni sua parte.

Dalla sua base perenne, dopo la stasi estiva, spunta  annualmente una grande rosetta fogliare, le cui singole foglie dalla colorazione verde o più frequentemente cenerina, sono lunghe anche un metro con bordi ondulati e frastagliati forniti di spine gialle, lunghe sino a quattro centimetri. In primavera, la pianta emette dei germogli alti anche oltre i due metri, al vertice dei quali compaiono dei capolini, grandi fino a quattro-cinque centimetri di diametro, racchiusi in un’armatura di squame, tutte munite di una robusta spina lunga fino a cinque centimetri, squame che in seguito si schiudono mettendo in mostra i fiori di una sorprendente bella colorazione azzurro-violacea.

Il cardo selvatico conosciuto e apprezzato già dagli antichi romani ha conservato nei secoli la sua importanza come ortaggio eclettico capace di soddisfare anche i palati più esigenti.

Di questa pianta si usano le carnose nervature principali delle foglie, che mondate della lamina ispida costituiscono un piatto per veri buongustai (cardoni gratinati); i più pazienti potranno sfruttare anche i capolini ricavandone i fondi o girelli, veri e propri carciofini selvatici, la cui bontà li ripagherà dell’intrepida operazione. Anche gli steli teneri scorticati possono essere gustati sia crudi che fritti in pastella oppure essere utilizzati in gustose frittate.

Un altro cardo meritevole è il cardo mariano (Silybum marianum L.) noto nel Salento semplicemente come cardu riestu. Non sarà difficile riconoscere quest’ottimo e robusto cardo, basterà osservare le foglie che oltre ad avere il margine spinoso (come tutti i cardi), presentano sulle lamine delle venature e maculature biancastre. Nella primavera-estate, non tarderanno a fare bella mostra di sé, i robusti fusti fioriferi alti anche più di due metri, recanti in cima dei grossi capolini di circa dieci centimetri di diametro, circondati da robuste brattee protettive terminanti con una grossa spina gialla ricurva all’indietro, lunga sino a tre centimetri. Allo schiudere del capolino, compariranno i fiori, di una bella colorazione rosso-violacea.

Come vogliono le leggi della botanica, dai fiori si formano i frutti che in questo caso sono dei piccoli acheni (semi) di cinque millimetri, di color nero lucido, con macchie grigie e pappo lungo uno-due centimetri.

I margini delle strade, le macerie, i ruderi costituiscono tradizionalmente il suo habitat d’elezione, ma è nei campi di spandimento delle sentine, ovvero delle acque di vegetazione ricchissime di fosforo derivanti dalla lavorazione delle olive, che questa pianta  raggiunge dimensioni davvero strabilianti.

Di questa pianta, la tradizione locale utilizza le nervature mediane delle foglie e gli steli teneri, ma possono essere utilizzate anche le infiorescenze e persino le carnose radici in preparazioni che  spaziano dalle insalate, agli sformati e alle zuppe. Per alcuni principi in essa contenuti, è usata anche come pianta medicinale in particolare per la silimarina, di cui sono particolarmente ricchi gli acheni che trovano impiego nel trattamento di alcune patologie del fegato.

La specie di cardo che però trova tradizionalmente più impiego nella cucina salentina, è il cardo scolino (Scolymus hispanicus L.), localmente noto come cardunceddhu.

Più piccola fra le specie fin qui descritte, raggiunge l’altezza di circa 80 cm, e presenta  foglie fortemente ispide e molto frastagliate. Il fusto, è fortemente ramificato e anch’esso irto di spine. Le infiorescenze, che sbocciano nella tarda primavera, si presentano di un bel colore giallo oro, hanno una discreta proprietà tintoria, e possono essere anche adoperate come succedaneo dello zafferano.

È una pianta tipica dei pascoli magri, delle steppe e delle radure salentine dove, dagli antichi fittoni, con le prime acque di fine estate spuntano prorompenti nella loro vigoria gli irsuti cespi. È quindi in questi luoghi che il cardo scolino può essere raccolto, quando è ancora allo stadio di rosetta di foglie basali, operazione che conviene effettuare con una piccola zappa anziché con il coltello per ovviare al problema delle spine.

Chi è esperto procederà già durante la raccolta ad una prima nettatura, afferrando le foglie ad una ad una dalla base e tirando in modo da estirpare le lamine fogliari liberando così la spessa nervatura mediana. Una volta a casa, si procederà alla rifinitura  spezzando le nervature più dure in modo da poter eliminare i filamenti più tenaci.

Possono essere consumati lessati da soli o mischiati ad altre verdure selvatiche, ma la preparazione tradizionale salentina più apprezzata è quella dei “cardunceddhri racanati” o a “stanatu”.

 

Minescia di carduni cu lu cranurisu

Minestra di cardi selvatici e riso

Come abbiamo accennato parlando della pianta, quella della nettatura del cardone selvatico è un’operazione che esige un minimo di esperienza, una buona dose di coraggio, ma sopratutto deve essere sostenuta da una buona passione per la cucina e per i cibi naturali.

Le parti di pianta utilizzabili per questa ricetta sono le nervature mediane delle foglie più tenere, ma sopratutto i capolini ben nettati e tagliati in quattro spicchi e i gambi che li sorreggono accuratamente decorticati e fatti a tocchetti. Durante tale operazione le parti già nettate andranno riposte in un recipiente contenente acqua acidulata con succo di limone per evitare che vadano incontro ad ossidazione annerendosi. Quindi si metteranno in una pentola con abbondante acqua, sale, olio extra vergine d’oliva, due spicchi d’aglio e prezzemolo tritato, si faranno cuocere sino a che le parti di cardo saranno quasi cotte e a questo punto si unirà il riso per minestre in quantità tale che alla cottura del riso risulti ancora abbastanza fluida. Si dovrà servire ben calda cosparsa di  buon formaggio vaccino grattugiato.

Burracciu

erva ti pacciu

Cardone

erva ti mbriacone

 

Minestra di cardi selvatici in brodo

Nettate i cardi selvatici, quindi portate ad ebollizione una pentola contenente abbondante brodo di carne, unitevi i cardi ridotti a tocchetti, e fate cuocere per circa un’ora e mezza. Con una schiumarola togliete i tocchetti di cardo e teneteli da parte. Versate nel brodo quattro-cinque uova intere, mescolate velocemente con una frusta e rimettete i tocchetti di cardo facendo riprendere l’ebollizione. A questo punto, aggiustate di sale, controllate la cottura dei cardi e appena questi risulteranno ben cotti aggiungete del formaggio vaccino grattugiato e servite ben caldo.

Ci vuliti viviri gustusu

ovu di tunnu e carduni spinusu

(proverbio siciliano)

 

Cardunnceddhi a stanatu

Per la preparazione dei “cardunceddhi” il problema principale, se non si è esperti, consiste nella loro “spinatura”, ma a questo problema si può ovviare ordinandoli ad un raccoglitore professione, figura che seppure in via d’estinzione è ancora  presente in quasi tutti i paesi del Salento, e che a richiesta, ve li fornirà già spinati. In questo caso, esonerati dall’ingrato compito, sarà sufficiente nettarli del moncone di radice eventualmente presente e spezzare le cimette (nervature mediane delle foglie) più dure eliminando i filamenti più tenaci e lavarli accuratamente. Lessateli quindi in acqua salata. Quando saranno cotti al dente, versate in un tegame un velo d’olio di frantoio, unitevi i cardunceddhri e fateli insaporire rigirandoli a fuoco medio per qualche minuto, quindi copriteli e lasciateli stufare a fuoco dolce fino alla completa cottura. A questo punto, unite delle uova battute con pepe nero, pecorino dolce grattugiato e un pizzico di sale, fate rapprendere e servite subito. Potrete pure passarli in forno a fare la crosta ed in questo caso basterà cospargere la superficie con dell’altro composto a base di uova e con del pan grattato misto a formaggio pecorino dolce grattugiato.

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4 Commenti a Tutto, ma proprio tutto, sui cardi spontanei del Salento

  1. Piacevolissimo articolo, sapiente e colloquiale. Il fatto che Massimo ci abbia presentato la pianta del cardo selvatico in maniera così particolareggiata e amichevole, mi fa sentire soddisfatta e orgogliosa. Per chi ama la campagna, infatti, è impossibile avventurarsene all’interno, nella bella stagione, e non rimanere colpiti e affascinati da questi altissimi fusti spinosi. Un po’ come camminare in via Montenapoleone a Milano durante le giornate dell’Alta Moda: siepi mobili di modelle altissime, splendide e irraggiungibili. Impossibile non accorgersene. Immaginate, allora, se un amico vi viene incontro e ve le presenta! Questo il senso della gratidudine nei confronti di Massimo, meritevole, tra l’altro, di averci avvicinato a qualcosa di bello e per giunta commestibile. Mi accorgo, a volte, nelle mie lunghe passeggiate, di osservare i cardi e di pensare di rimando ai nostri avi che ne facevano uso spontaneo in cucina, muniti di quel ‘coraggio’ che nasceva dalla fame e dal rispetto della terra e di tutti i suoi frutti.
    Qui dove vivo, c’è un sentiero inghiottito dalla radura della foce del Crati, nella Sibaritide, che in primavera riveste gli argini del fiume di iris gialli e di fiori celesti di cardi: passar loro accanto e doverli ammirare dal basso verso l’alto, mi fa sperimentare con una certa emozione la maestosità della natura e la sacralità del suo messaggio fatto di amore e di bellezza.
    Ricordiamocene, allora, quando lasciamo che tutto questo venga distrutto dall’aridità pungente del profitto!

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