di Alfredo Romano
Una premessa. Era il 1984 quando mi capitò un giorno di ricevere per posta da Parigi un’audiocassetta dal mio amico Giuseppe Maniglio. Giuseppe, anch’egli nativo di Collemeto, di pochi anni più piccolo di me, era emigrato a Parigi nel 1963 con tutta la famiglia all’età di otto anni. Con lui mi incontravo nelle vacanze estive a Collemeto, avevamo in comune degli ideali e, soprattutto, la passione per la musica. Nel 1976 fummo invitati a cantare a una Festa dell’Unità a Collemeto: io cantavo con la chitarra, lui, che era un virtuoso della chitarra, creava figure musicali che arricchivano le mie interpretazioni. Si trattava ovviamente di canzoni popolari e di protesta che scandalizzavano una parte del pubblico cosiddetto benpensante. In coppia con Giuseppe suonava anche suo cognato Alain Aussage che creava altri virtuosismi col suo flauto traverso.
Tornando all’audiocassetta, c’era acclusa una lettera dove Giuseppe mi spiegava di aver composto cinque motivi musicali e io dovevo metterci le parole: improvvisarmi paroliere, insomma. Così mi misi ad ascoltare quei motivi e, in un capo a un mese, scrissi i testi da adattare alla musica. Ma ci fu un motivo musicale che mi colpì particolarmente al quale Giuseppe aveva dato il titolo di Casa mia: avevo come l’impressione di un lamento dell’esule, mi sembrava di vedere Odisseo nell’isola di Ogigia che, seduto su di uno scoglio, volgeva i suoi pensieri alla sua amata Itaca.
Per la cronaca, Giuseppe, alla fine degli anni Ottanta, decise di stabilirsi a Civita Castellana. Qui abbiamo fondato l’Associazione “Teatro delle Meraviglie” e lui, anche ottimo regista, oltre che musicista (è un interprete unico della canzone francese in Italia), ha portato in palcoscenico con successo varie opere di grandi drammaturghi. Ed ecco i versi della canzone, di poi l’ascolto della stessa in una mia registrazione casalinga.
CASA MIA
Le scarpe sulla soglia
un giorno troverò
per me che son partito
ma i piedi non ce l’ho
son nudi sulla via
che porta a casa mia
profumi d’una terra
che ormai non sento più
il cielo azzurro che
si specchia dentro me
Uomo sai
tu non dimenticare
dove vai
il vento del tuo mare
Attento figlio mio
ti salvi almeno Iddio
con la chitarra in mano
fortuna non farai
mio padre è vecchio ormai
non sa della mia vita
quei versi sulla strada
che sputo sempre più
non canto quelli che
nascondo dentro me
Uomo sai
tu non dimenticare
dove vai
il vento del tuo mare
1984.
Bei ricordi di amicizia, musica e sere d’estate. La casa è sacra come ogni nota e verso che le si dedica. Alfredo e Giuseppe, due rami dello stesso ceppo, hanno aspettato ogni estate per rivedersi, a volte hanno cantato in piazza, altre provato accordi e musiche alla chitarra in via Padova, davanti all’uscio di Giuseppe. Mix di stelle, entusiasmo e melodia di corde.
Ma arriva sempre il momento in cui un uomo strappato alla sua terra sente il bisogno irresistibile di lasciare un segno del suo passaggio, della sua nostalgia, del suo amore di sposo prigioniero in luoghi dove il suo sentimento non è lo stesso, come non sono gli stessi il cielo, i profumi, il vento del mare. Giuseppe allora manda da Parigi a Collemeto la musica e Alfredo ne scrive il testo. Le scarpe dell’emigrante che rimangono sulla soglia di casa sono il pegno che quell’uomo lascia alla sua terra accettando il dolore di sassi pungenti in lande sconosciute nell’attesa trionfante di calcare la via del ritorno. Sogno perenne di ogni esule in terra straniera.
Il mio pensiero va alla felice conclusione dell’avventura di Giuseppe e Alfredo, oggi ricongiunti nel medesimo posto, se pur lontano dall’amato Salento. Dove ci sono gli affetti, c’è un pezzo di casa, si sa.
Il mio pensiero va anche a tutti quegli uomini e donne di buona volontà che nel lungo viaggio alla conquista di una vita migliore, mai più fecero ritorno nella loro terra: piedi condannati a rimanere nudi tra i cocci di cuori a metà e sogni infranti.
Quando leggo i commenti di Raffaella resto sempre di stucco. Se legge un racconto o dei versi, lei, con le formidabili armi del suo stile, aggiunge racconto a racconto, poesia a poesia. Raffaella non fa critica letteraria, ma s’infila nelle pieghe dei paragrafi o dei versi e riscrive, rielabora, fa riemergere il non detto, le pieghe oscure, gli anfratti… Ah, cantami, o Musa!
E si, Raffaella, la vita può anche essere migliore qui ma il cuore è rimasto li!!!