di Livio Romano
Seguo con grandissima attenzione il lavoro narrativo di Elisabetta Liguori da più di dieci anni. Il fatto che siamo amici non mi esime dall’irrefrenabile impulso di scrivere qualcosa tutte le volte che finisco di leggere un suo nuovo romanzo. Ché poi, si sa, l’amicizia è come un filo. A volte tesissimo, ad annodare, tenere insieme le anime rispettive. Altre volte molle, se non sfilacciato dalle inevitabili delusioni che da che mondo è mondo caratterizzano i rapporti umani –eppure sai che, nonostante quei buchi neri, il tuo amico è là, pronto tu a recuperarlo, pronto lui ad accoglierti di nuovo. Mi dilungo su queste annotazioni poiché i romanzi di Elisabetta Liguori di questo precipuamente parlano: del complicatissimo viluppo dei flussi emotivi che scorre fra gli uomini. È un’assoluta maestra, Elisabetta, per dire, nel mettere in scena le dinamiche della coppia, in particolare di quella coppia la quale vive “sotto lo stesso giogo” (etimologia del “coniugio”). E trovo tutt’oggi insuperato un suo romanzo inedito il quale, son sicuro, prima o poi vedrà la luce e avrà la fortuna che merita. Questo La felicità del testimone, ed. Manni 2012 rappresenta un punto di arrivo sfavillante nel percorso di scrittura dell’autrice. Tutta la narrativa che mi arriva in manoscritto, nonché pressoché tutti i libri degli autori salentini i quali non siano arrivati a pubblicazioni di respiro nazionale (e se vi sono arrivati è attraverso minuscoli editori senza forza industriale, senza capacità di promozione): è sovente materiale dilettantesco, o di un pretenzioso da sfiorare la comicità involontaria, oppure contraddistinto da questo fastidiosissimo lirismo da quattro soldi che fa dire a Rossano Astremo, a ragione: “Il Salento, più che di narrativa, è un luogo di poesia”. Voglio dire che Elisabetta Liguori è una scrittrice vera. Una scrittrice nata. Un’abilissima narratrice. Dotata di consapevolezza letteraria e linguistica altrove introvabili. La sua prosa è controllata, mai debordante, esatta come un laser, curata, raffinatissima. Soprattutto: risente di solide e ingenti letture che contribuiscono negli anni ad affinare la sua già personalissima e potente voce narrativa (lo scrivo anche per contrasto a certi libretti dentro i quali il prosare è faticoso, volendo sembrare artefatto e ricercato finisce per diventare artificioso e, soprattutto, gira e gira su se stesso senza mostrare un bel nulla lì dove è notorio che narrare è solo una questione di show, don’t tell, come disse Mark Twain). Non voglio entrare nella trama di questo nuovo noir (che, a me che nulla so del genere, sembra un altro dei deliziosi non-noir, o noir inutili della Liguori), né voglio parlare dei personaggi. Concetta e Angelo meriterebbero ben altro spazio, tanto son dipinti con maestria superba, e servendosi di pochi essenziali tratti: rare istantanee della loro esistenza che dicono tutto del loro modo di essere e agitarsi nel mondo. Non voglio tirar fuori neppure la testimone-bambina intorno alla quale ruota l’intera vicenda. Ho fatto lo sbaglio di leggere qualche recensione. Gli interpreti son d’accordo nel mettere al centro del romanzo il tema dell’infanzia e della sua fragilità. A me no. A me della Felicità del testimone ha colpito soprattutto la leggerezza, il tocco lievissimo, composto, sorvegliatissimo che l’autrice imprime alla penna quando batte il ritmo, quando uno ad uno fa entrare in scena i protagonisti della storia e li presenta al pubblico con le loro goffaggini, le loro grandezze, i loro tic. Il ritmo. Scheletro portante di una narrazione. In questo romanzo il passo è pressoché perfetto. Neppure un colpo di grancassa è suonato un secondo prima o dopo. E, attenzione, questa lievità espressiva non è mai funzionale alla creazione della suspense, come ci si aspetterebbe da un vero noir. Tutto al contrario, la Liguori tiene il ritmo, briga con personaggi ed eventi, ambienti e sentimenti esclusivamente per far musica, sublime musica narrativa. In parte rinunciando al gusto barocco per la profusione di similitudini e a uno stile a spirale che ha sempre caratterizzato la sua scrittura, questa volta l’autrice ha davanti a sé una grande torta da guarnire. Le spirali di panna che abbozza sul pan di spagna son roselline garbate. Spiraliche, sì. Ma poi la Liguori con la siringa da pasticcera tira su le colonnine di spuma fino a sistemare sopra al suo dolce una circonferenza di meringhe a spire. Ma non solo. Guarnisce pure, le sue torrette. Con spruzzi di humour e prese di distanza dalla materia altrimenti incandescente e, a dirla tutta, insostenibile. Non voglio dire che questo non sia un romanzo di sentimenti, di rappresentazione delle emozioni, a volte anche estreme, che passano da un essere umano a un altro (“Quando ci si ama, ci si parla e basta”, annota l’io narrante, per esempio, a proposito di Concetta e la bambina). E però questo viluppo di emotive apprensioni è abbozzato ma subito dopo immerso dentro a una azione (il correre, il bere un bicchiere con l’amica del cuore Agnese) oppure trascolorato in una sineddoche argutissima che confonde le acque, sposta il fuoco dell’attenzione su qualcosa di sensibilmente avvertibile (“il camoscio”, per esempio, diventa a un certo punto il misterioso picchiatore, e già chiamarlo così vuol dire levargli aura tragica, smettere di prendere sul serio sia lui che l’intera vicenda). Insomma dissento dall’altro mio amico caro Antonio Errico, nonché da Enzo Mansueto. Nessuna pietas. Solo la straordinaria prosa di una scrittrice nata che utilizza gli avvenimenti della realtà per fare monumentali vezzose torte di panna e meringhe, a loro volta parodia dei mausolei di marzapane che si trovano nelle vetrine dei pasticceri di paese.