RIFLESSIONE DEL PROTAGONISTA DI UN ROMANZO-SAGGIO
GUARDARE TUTTO A FILO DI ZOLLA
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain e Nino Pensabene
(…) Ma a proposito di politica, di leggi e di poltrone, qual è la realtà agricola del Salento? Me lo chiedo con lo struggimento di un innamorato che sa la sua amata maritata male, e mi torna alla mente l’immagine di don Filippo mentre batte col dito sul tacco della scarpa e mi dice: “Il Salento è questo: la parte più bassa dello stivale, il tallone, costretto a un impatto perenne con la zolla. Per conoscerlo non basta guardarlo dall’alto: occorre posare la guancia fra l’erba e guardarlo a filo terra… solo così ne scopri la profondità delle rughe…”.
Questa considerazione l’ho sempre ritenuta il mezzo migliore e forse insostituibile per accedere a una ragionata valutazione del problema, ma ogniqualvolta la rivango mi dico ch’è un consiglio che meriterebbe una più ampia collocazione. Esulando dalle problematiche agricole e dai suggerimenti geografici di una regione, dovrebbe essere scelto a metro e rimedio universale di un male che tutto e tutti sta minando nella dissociazione di ogni valore, nello spacco profondo delle incomprensioni e delle solitudini.
Incomprensioni e solitudini che nascono appunto dalla non conoscenza che l’uomo ha dell’uomo, dal rifiuto a curvarsi sul cammino degli altri e viverne in fraternità le serpentine.
Guardare il tutto a filo di zolla può essere il mezzo più sicuro per non scoprirsi estranei al mondo, e anch’io, più volte, fiaccato da un rimorso di incomunicabilità, ho desiderato di ritrovarmi steso fra l’erba e trasformarmi in un granello di terra per meglio penetrare nei talloni di chi passa e testimonia la vita attraverso le orme.
Per un gioco di rimbalzo, ogni volta mi attardo a immaginare di quanta pienezza deve essere stata la sorpresa di Robinson Crusoe quando, sulla spiaggia della sua isola deserta, scoprì la presenza dell’uomo attraverso le impronte lasciate da piedi sconosciuti. Mi spingo a ricercare una concorrenza di significazioni fra i solchi delle mani e quelle dei piedi e mi dico che se, nei secoli, ci si è ostinati a ricercare rivelazioni nell’apertura del palmo, uguale indagine poteva benissimo essere incentrata sulla pianta del piede. Forse non una divinazione su ciò che ancora è da bruciare, ma una conferma su ciò che si è stati, forse anche sui fluidi carpiti alla terra nella pressione dell’impatto.
“Mostrami il piede che hai e ti dirò come hai camminato”. Una frase da battage che potrebbe lanciare l’idea di un nuovo studio sulle tendenze e le rispondenze dell’uomo, sulle sue possibilità e i suoi condizionamenti. Ma c’è da prevedere che in pochi se ne occuperebbero e la stessa frase finirebbe con l’essere assunta da qualche lavoratore di pelli, a sostegno consumistico di una scarpa più o meno comoda.
Il ricordo della scarpa mi annulla l’idea di un’analisi umana attraverso il piede e mi riempie lo sguardo di piante e dita deformate, costrette dalle mode che alle zeppe fanno succedere i tacchi a spillo, ai tagli quadrati le punte a triangolo.
Mi accorgo sempre più che lo studio dell’uomo porta inevitabilmente alla condanna della società, e la stessa realtà della vita s’imbastardisce, si adatta alle forme coatte dei modelli voluti o, a volte, semplicemente immaginati.
L’uomo spesso guarda alla realtà come a una dimensione sbagliata, poiché nella sua presunzione si convince che la verità sia nelle sue ipotesi e non tiene conto che, la stessa, non può nascere da una o da cento ipotesi, ma da migliaia e migliaia di vedute diverse, e tutte le distanzia e tutte le annulla. Ma nessuno rinuncia a dirsene possessore e, appena acquisisce una delle sue tante parvenze, s’illude di una conquista totale e si ostina a vedere l’esile filo che marginalmente lo tocca come un solido ponte, viadotto personale che gli consenta l’accesso alla città dei suoi desideri.
Tutto un mondo di cercate suggestioni, come quelle di Santuzzu, un ragazzino sbrindellato che passava il suo tempo a raccattare fogli di carta straccia con la quale, pazientemente, si costruiva dei cannocchiali. A lavoro compiuto, vi inseriva dei ritagli di stagnola, e impiegava ore a guardare con un occhio solo e a lanciare grida di meraviglia per ciò che riusciva a vedere.
“Guarda”, mi supplicava eccitato, “c’è un mare e un bastimento meraviglioso!”
Per farlo contento, accostavo l’occhio al foro della carta, ma altro non riuscivo a vedere che un mucchio di stagnola ritagliata.
“E’ stupendo!”, affermavo restituendo il cannocchiale, e sorridevo della sua illusione bambina.
Ora mi accorgo che non dissimile è l’illusione che governa gli adulti e li gioca sul filo delle emozioni.
Se una differenza c’è, sta nel vizio acquisito dell’ipocrisia che inevitabilmente s’innesta nelle parole, deteriorando la stessa semplicità delle reazioni, suscitando in chi ascolta, non il sorriso indulgente, ma la risata ironica che, pur se comprende, non perdona.
Quella risata che si beccò un certo sottosegretario, sceso nel Salento a inaugurare la sede rimodernata di un istituto di suore.
Al termine della cerimonia, lo accompagnarono in corteo nella piazza grande del paese, dove, coincidendo l’annuale ricorrenza dei festeggiamenti a S. Antonio Abate, era già pronto il tradizionale falò.
Fin dal primo mattino, le donne erano affluite in processione, ognuna recando la sua fascina di sarmenti, raccolti nel proprio vigneto o chiesti in elemosina: una massa enorme di legna che gli uomini avevano sistemato in forma cilindrica, ponendovi in cima un fantoccio da bruciare a simbolo della rinnegazione del male.
Mentre sette ragazzi spingevano nella catasta di legna carte incendiate, le donne facevano cerchio, invocando a gran voce un marito sano e forte per le loro figlie; un cerchio che si slargò al primo divampare alto delle fiamme, cedendo il posto a un gruppo di vecchie, ieratiche nei loro scialli neri. Quest’ultime si diedero a lanciare nelle fiamme grani di vecchi rosari e manciate di sale, quasi evocassero, in un rito magico, delle forze
sconosciute, delle potenze misteriose rimaste sino a quel momento in esilio, oltre il muro delle superficialità quotidiane.
Quando il falò, sfavillando, si accasciò su sé stesso, ci fu una corsa sfrenata all’accaparramento delle braci che, trasportate nelle case con antichi catini di rame, dovevano servire a cuocere sottili fette di maiale, l’animale immondo che, a simboleggiare le tentazioni, viene raffigurato ai piedi del Santo.
Questa coreografia, un po’ paganeggiante, quasi legata a perpetuazioni ancestrali, piacque al signor sottosegretario. E poiché in ognuno di noi, almeno in certi momenti, riaffiora un desiderio di costruzioni poetiche, come regressione verso uno stadio d’infanzia, come rifiuto di quel cinismo innestato dalle forme sibilline della vita, o come disperazione del già perduto, si arrese alle seduzioni ambigue dell’illusione, proiettandosi al di fuori del razionale. Tanto che, al ritorno, transitando sulla camionabile per Taranto, che si snoda attraverso i poderi della vecchia riforma di Arneo, si trovò ancora intriso di umori vergini, ancora disposto a parcheggiare in sentimenti idilliaci. Ciò lo portò a ritenere falò di devozione anche i fuochi che le prostitute, rifugiatesi nelle case abbandonate della riforma, accendevano ai margini della strada per segnalare la loro presenza.
Il suo discorso, che nell’indice di quelle fiamme celebrava un popolo progredito ma saldo nei sentimenti di fede, mise a disagio la professionale stratificazione intuitiva del vescovo che gli sedeva accanto – e al quale era bastato un solo sguardo per un quadro sinceratore -, ma arricchì gli altri accompagnatori di uno spunto inatteso per brillanti conversazioni.
Tramutato in barzelletta, l’episodio rimbalzò di bocca in bocca, suscitando la risata grassa anche di chi, sulle illusioni di una certa politica, non è più disposto a ridere.
Io, più che ridere, sorrido sempre delle illusioni, anche quando, pungendomi il sospetto di una origine ipocrita, vorrei gridarne il pericolo o la vergogna. Forse perché considero l’illusione un’ombra dalla quale l’uomo non può disgiungersi, una incapacità congenita a essere sempre presenti e reali fra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere.
Questa mia disponibilità a sorridere di tutte le illusioni, potrebbe essere, dopo il doloroso sfaldamento della mia vita, l’unico punto fermo rimastomi; ma forse è un’illusione essa stessa, e se l’accetto e in qualche modo me ne compiaccio, è perché, se non un senso di superiorità mi dona, almeno mi costringe a un pareggio.
Riconosco ch’è sempre così difficile scoprirsi uomo pareggiato agli altri uomini, accettarsi unificato, se non nei pregi, nei difetti che ognuno di noi si porta in giro con naturalezza, come il neo che si può coprire ma non cancellare, come il pelo che si può radere ma non eliminare.
Ognuno di noi è portato a sentirsi diverso, ma c’è sempre un’inconfessata superbia nell’amarezza di dichiararsi isole, poiché in ciò s’innesta un inconscio desiderio di superiorità, anche se la stessa, una volta inventata, ci disarma, ci umilia nella confusione di un’ellittica fatta di bene e di male.
Mi accorgo che la forgiatura di queste presunzioni porta, per contrasto, all’emersione delle proprie miserie; mi ripeto che, nell’essenza dell’uomo, vittoria e sconfitta s’incidono l’una nell’altra e che è un lavoro ingrato andare alla ricerca di un basamento di granito sul quale appollaiarsi e dal quale decidere una collocazione.
Il gioco delle autovalutazioni è pericoloso, ti porta a tuffi improvvisi in un tempo avulso dalle cronologie del reale, un tempo da fondale marino: tutto appare sospeso, ingigantito, e anche il guizzare dei pesci può essere ingannevole, convulso, come una danza disperata fra il nulla e l’infinito.
E’ proprio nella convergenza battagliera di questi due termini estremi che cerco di innestare il mio equilibrio, ma non per tentare la radiografia di una mia dimensione, ma per scavare la ragione delle cose, riuscire a penetrare nei perché delle reazioni, nel come
delle conclusioni.
Un discorso complicato che sgomitolo nelle notti di veglia quando, accovacciato di fronte a una tela ancora bianca, vago nella ricerca di una sintesi che mi aiuti ad accenderla di colori. Un discorso che non potrei convertire in parole, poiché quest’ultime le ritengo, oltre che mezzo povero, elemento imbastarditore del pensiero. Con quella loro compattezza infeltrita, mi riportano alla mente i pezzi di muschio che, per ordine del parroco, nell’approssimarsi del Natale, andavo a staccare dai tronchi degli ulivi e che, spruzzandoli d’acqua, disponevo a più strati in un cesto. Servivano a creare, nel presepe, l’illusione di un prato, sul quale sospendere l’illusione della scena.
Sì, le parole sono una pianta parassita sul tronco del pensiero, né le assolve il fatto che, a volte, lo vellutano, poiché appunto vellutandolo, lo camuffano, ne vietano la genuina trasmissione.
Forse per questo il silenzio risulta più pieno, più libero, più significante; e inclino a credere che, più che un lungo discorso, può essere più valido un breve sguardo. Me ne sono accorto tutte le volte che ho cercato di sintonizzarmi con il prossimo attraverso il dialogo e ne sono uscito deluso, forse per quella mia cronica incapacità a manovrare i selettori, a fermarli sulla frequenza giusta e nel momento opportuno. Colpa di un’inquietudine che mi blocca nel terrore di assistere alla pietrificazione dei verbi, alla loro trasformazione in roccia, quella roccia…
Stralcio del romanzo “I SASSI DEVIATORI”, 1978