di Armando Polito
*Traduzione dal miciese in neretino: Fiatu mia! Sta fiata Armandu s’è ‘mmurtalatu: sta scatuletta sta mmi lassa senza fiatu.
Traduzione dal neretino in italiano: Che bello! Questa volta Armando si è immortalato: questa scatoletta mi sta lasciando senza fiato.
Nc’era nna fiàta era in dialetto salentino il corrispondente italiano di c’era una volta, che probabilmente ha la sua brava traduzione letterale anche negli altri dialetti. Fiàta, però, è voce, per dir così, nobile, cioè letteraria e basti un solo esempio: Pria nel petto tre fiate mi diedi (Dante, Purgatorio, IX, 111). Essa deriva dal francese fiée che è da un latino *vicàta1, a sua volta dal classico vicis=vece, cambiamento, vicenda (non a caso vece, vice, vicenda e vicario sono tutti da vicis).
Che strana vicenda, è il caso di dire, quella di fiàta figlia di *vicàta (chi l’avrebbe detto!) e moglie mancata, come vedremo, di fiato/fiatu! Qualche sospetto iniziale, però doveva suscitarlo il fatto che, mentre lei (la fiàta) è voce astratta, il fiato/lu fiàtu è concreta, nonostante le parole siano capaci (come gli uomini che le hanno create…) dei più audaci ed inaspettati trasformismi. Qui, a dirimere ogni dubbio, parla chiaro il fatto che fiato è dal latino flatu(m), da flare=soffiare, da cui derivano pure da un lato afflato (sinonimo di ispirazione, nelle sue specializzazioni tutte nobili, nonostante all’origine significasse esalazione: afflato divino, afflato poetico), dall’altro, ahinoi!, flatulenza e inflazione.
In fondo le è convenuto non fare una fine animalesca, quella, per intenderci, di asino/asina, cavallo/cavalla, topo/topa (in quest’ultima accoppiata, poi, il gioco si fa duro tenendo conto del significato anche osceno che la voce femminile può assumere…) ma avere lo stesso destino (matrimonio mancato), per esempio, di casa e caso, (anche se essi presentano un’inversione del rapporto astratto/concreto).
E poi, dopo lo scampato pericolo, il trionfo finale proprio in dialetto nella locuzione fiatù mia!=che bello!, che sembra essere un inno alla felicità e alla vita, di cui il respiro, il fiato costituiscono da tempi immemorabili il principale indizio sintetizzato nel ciceroniano si spiritum ducit, vivit2 (se respira vive).
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1 Questa forma latina ricostruita (perciò preceduta dall’asterisco) sopravvive nell’italiano antico vicata, con lo stesso significato di fiata incontrovertibilmente mostrato dal contesto (Francesco Bonaini, Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, v. III, Vieusseux, Firenze, 1857, pagg. 681 e 705: per ciascuna vicata; il documento in cui compare è del 1305).
2 De inventione, I, 86
Ricordi d’infanzia: ..’ncera ‘na fiata ‘na muscia ‘nchiata ca se bbinchaiu te simulata. Uei cu te la cuntu n’aura fiata? ?’Ncera na fiata ‘na muscia ‘nchiata ca se bbinchiau te simulata, uei cu te la cuntu ‘naura fiata? Questa sorta di tiritera cantilenata chiudeva a ripetizione li “cunti” o le canzoncine filastrocche raccontate all’infinito!
E poi, sempre sul gioco di parole e di suoni: “te fete lu fiatu”!