CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO
LA BENEFICA PRESENZA TI LU TIERNU TI LI SANTI RIGNANTI
ovvero
LE CAVALCATURE DEI RE MAGI
di Giulietta Livraghi Verdesca Zain
(…) Nell’impaginato della campagna, aperto a un intricato linguaggio fatto di segni pronti a convertirsi in circostanza leggendaria e farsi nodo radicale di strane credenze, a volte capitava di scorgere sulla superficie rugosa della terra un chiaro tracciato di impronte animali che senza accusare progressiva dissolvenza o inversione di marcia si interrompevano di colpo, come se la bestia autrice delle orme si fosse improvvisamente volatizzata.
In una ponderata analisi si poteva congetturare l’occasionale proporsi di una diversa solidità del terreno, capace di non accusare impressione, o ripiegare sull’abitudine che le bestie – soprattutto gli equini – avevano di lasciarsi improvvisamente cadere a terra per poi rotolare felici fino alla più vicina delle macchie erbose; ma i contadini, forse per un istintivo gusto al mistero, ne traevano ipotesi assurde, basate sul positivo o negativo a seconda se le orme risultavano di cane o di bove, di capra o di cavallo, avendo ogni bestia – sempre nel concetto del popolo – ben distinte compromissioni col paranormale.
Le impronte a tutti più gradite erano quelle equine, soprattutto se, dalle dimensioni e intersecazioni del tracciato, si arrivava a stabilire che a lasciarvele era stata una triade di bestie, rilievo che portava difilato ad affermare la benefica presenza ti lu tièrnu ti li santi rignànti (del terno dei santi reali), intendendo con tale definizione alludere alle cavalcature dei re magi che la tradizione orale identificava non negli esotici cammelli ma in un cavallo bianco, una giumenta rossa e un mulo nero.
Il meraviglioso di tanta insolita visita stava nella credenza che le tre bestie, per avere avuto la fortuna di trovare la grotta di Betlemme, erano diventate esperte nel cercare e trovare tesori, particolarmente quelli nascosti nel sottosuolo, giacché seguendo an cùcchiu an cùcchiu la steddhra cu lla cota (appresso appresso la stella cometa) avevano assorbito tanta di quella luce da ritrovarsi con occhi capaci di vedere lu scusu an funnu (ciò che era celato nel profondo [sottoterra]).
C’era da aggiungere che per avere notato con quanta gioia i re magi avevano offerto i loro doni a Gesù Bambino, e nello stesso tempo compreso come la nascita del Messia fosse immenso dono d’amore per l’umanità, nel loro piccolo cercavano di emulare così luminosi esempi, per cui lo scendere sulla terra e lasciare impronte in un campo era da intendersi come l’affettuoso dono di una rivelazione: nel punto dove le orme si interrompevano c’era di certo un tesoro nascosto, ipotizzabile anche come costituito da pezzi d’oro o monete d’argento, ma che nella più diffusa delle interpretazioni si concretizzava in una polla d’acqua viva, tesoro in assoluto per l’agreste salentino. (…)
Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994, (pagg.161-162)
Mi sto affezionando a queste pagine di Giulietta Livraghi Verdesca Zain, che Fondazione di Terra d’Otranto ci offre di tanto in tanto. Oggi poi, giorno dell’Epifania, i Re Magi diventano il pretesto per un frammento di cultura contadina di cui abbiamo memoria ormai sfilacciata e sbiadita, avulsa dal viver quotidiano dell’oggi. L’autrice salva dunque un piccolo dettaglio, e ce lo porge quale dono, lo spiega, lo giustifica, lo riempie di significato… e le impronte interrotte delle bestie diventano un prodigio. E a noi, che siamo figli scordati di quel mondo, piace creder nella polla d’acqua che bestie sapienti sanno individuare, mentre noi non sappiamo più niente, abbiamo scordato l’alfabeto di quella civiltà e rincorriamo tracce.