di Elio Ria
Il titolo: Di tanto tempo: per dare una “misura” indefinita del tempo.
Il Sottotitolo: Questi sono i giorni: per indicare i giorni, privi di una connotazione temporale. Fuori dal calendario.
Calcolare il tempo, ordinare gli eventi costituiscono doveri ai quali l’uomo non può sottrarsi sia per ragioni concrete, appartenenti alla sua quotidianità, come ad esempio stabilire l’ora per un appuntamento, sia per ragioni più propriamente speculative al fine di stimolare la riflessione filosofica, teologica e scientifica.
Se per l’uomo comune il tempo fluisce attraverso le lancette dell’orologio, per lo studioso esso risulta una realtà altamente problematica, oggetto di continua ricerca.
Lo scrittore invece interpreta il sentimento del tempo e la maniera in cui lo si vive. Elabora narrazioni fantastiche e reali non per concluderlo in concezioni teoretiche, ma per dare un senso alle sue infinite presentazioni e modalità di apparizioni nel grande mondo della vita.
Vincenti nel libro è autore di se stesso. Senza condizionamenti si propone di capire come vivere il tempo, proietta le sue capacità tutt’intorno a sé secondo un tracciato che alla fine ne dia un senso, che riveli il perché della sua esistenza e di quella del genere umano.
Anche se lui non potrà attingere a questa rivelazione, poco importa. Ciò che importa è il disegno svelato della sua vita: come specchio o acqua essa riflette – rimanda, rielabora, rispecchia – le cose della vita.
L’azione e la pratica dell’indagine interiore si riflettono dunque nello specchio della letteratura che ne rimanda il riflesso e l’immagine reali senza variazioni, nitide e trasparenti.
La vita è scandita dal fluire del tempo che macina il destino umano nella grande ruota della Storia, oscillando fra il sofferto riconoscimento del reale e il momento di visione o di tentata evasione, fra la presa di coscienza dell’effimero, dell’assurdità, dell’ incontrollabilità degli eventi, delle infinite incertezze.
Tutto appartiene agli altri, a eccezione del tempo. Lo si può gettare via, spendere senza strafare. Ma è soltanto nostro e siamo chiamati a interessarcene attraverso la memoria.
Vincenti entra nel labirinto della memoria. Il suo cammino è con se stesso e con altri. Vuole interrogarsi e ricordare. Indagare sui fatti accaduti propri e degli altri.
Il viaggio nel tempo inizia con un testo intitolato “Un viale nel giardino del Salento”, ispirato a “Un giardino nel viale del Lussemburgo” di Gerard de Nerval.
E subito alle prime righe compare un interrogativo: qual è il sugo della storia? Di ogni storia? Di questa mia storia?
Non avverte il bisogno di comprendere le ragioni che hanno dato inizio al principio e alla fine delle sue storie, piuttosto l’urgenza di capire l’accaduto che sta nel mezzo, quell’”adesso”, appunto, che in un determinato presente partorisce una storia.
Nel testo, nella scrittura di Vincenti, succede qualcosa: le parole rallentano il presente, quasi a immobilizzarlo per farne una scansione del contenuto e del suo significato.
Infatti in Cosa importa, dice: Non mi importa di essere un eroe,/ se c’è l’aurea giovinezza che mi brilla nel cuore./ Che mi importa di accumulare ricchezze,/ se la splendente giovinezza mi scorre nelle vene/… […]
L’intento è chiaro: l’ errore maggiore sta nel credere che il tempo sia infinito. Ogni ora che passa fa parte del dominio della morte. E allora bisogna fare tesoro del tempo che rimane: non schiavi del futuro ma padroni del presente. Forse negare la successione temporale, negare l’io, negare l’universo astronomico sono disperazioni apparenti, ma anche consolazioni segrete.
Il tempo non è una cosa, ma la forma del pensare le cose, e la forma del pensare “forma” la memoria secondo leggi ancora non del tutto svelate e interpretate.
La memoria avvinghia l’autore come ad una coperta di lana, come nell’ultimo respiro e ne fa parole che scorrono, parole vecchie e nuove, sulle pagine del suo diario, parole che attirano, parole che ammaliano, parole che respingono, parole che profumano di verità, altre invece che puzzano di verità, parole che confermano e che offrono la certezza della continuità della vita nel tempo.
Il tempo è denso di significato. Ha un sapore particolare. Non vi è mai un accenno alla noia: per designare quella sofferenza che nasce quando non si riesce a dare un senso al tempo, ma la rabbia di subirlo: “ E’ troppo duro questo tempo, sa sostenere/io non so pensare al mio futuro/quando c’è un presente che mi può schiacciare/ , da [Questo tempo (Non sopporto)].
La scrittura di Vincenti, una sorta di teoria della relatività letteraria, così come è stata definita dal prefatore Vito D’Armento, è un susseguirsi di immagini, parole, confessioni. D’altronde la citazione di Eliot “Il grande poeta, mentre scrive se stesso, scrive il suo tempo” convalida quanto già esposto.
“Dentro se stesso” l’autore chiede giustizia al tempo che lo ha ingannato, illuso ed estromesso da altri contesti. Riconsidera con maggiore lucidità il tramonto, la noia, la città, la natura, l’uomo.
Nella sua interrogazione del tempo già vissuto e di quello ancora da vivere immagina colloqui con i filosofi e gli scrittori, che dal loro pensiero trae spunti e verità nell’arduo tentativo di dare una seppur minima e apodittica definizione della qualità del vivere il tempo.
L’uomo alle soglie della modernità è un essere carente, tranne che di quel tempo che gli è dato come patrimonio costitutivo della finitudine della sua condizione mortale. È costretto a imparare subito e senza errori come vivere il tempo, considerato che arriverà il giorno in cui dovrà renderne conto.
Ma la chiave di lettura dell’opera letteraria sta proprio a pagina 37 del libro, dal titolo “Cosa importa”, dove il suo interesse per il presente è evidente.
[…] Voglio una vita bella e desiderabile / e morire prima di raggiungere l’apice! / voglio consumare quest’amore fugace e carezzevole / e schiantare nella tomba, prima di diventare riprovevole, / perché se i fiori della giovinezza appassiscono presto, / io voglio vivere adesso e non mi importa il resto, / […]
Allora è tutto chiaro!
Il tempo non deve essere elasticizzato oltre i confini della fantasia, ma reso “razionale”, a portata di mano, quasi addomesticato per i propri usi e consumi.
Il libro scritto da Vincenti è l’inizio di un lavoro che non può ritenersi finito (anche in ossequio al tempo) ma l’incipit per la comprensione e sviluppo di un tempo adattato alle esigenze della contemporaneità, scevro da fardelli sociali, falsi perbenismi, pericolose ideologie. Invero, si chiede l’autore, qualcosa bisogna pur fare in questo mondo fin troppo mitizzato. Innanzitutto fare la de-mitizzazione dei miti un tempo funzionali ma ora non più. Il mondo attende un superamento dell’inerzia della mente, della sua passività, per un pensiero che sappia liberarsi dalle sue stesse muffe per incontrare nuove idee e sia innovativo. Idee chiare. Anche abbozzi di interpretazioni che però possano consentire alla mente di immaginare nuovi orizzonti e di capire meglio il vivere.
Un’ultima breve considerazione.
Nel tempo delle chiacchiere in un tempo come questo lontano dal silenzio della riflessione, il lavoro sulle parole è esercizio teoretico, ma anche esercizio morale: lavorare su di esse significa sottrarle all’equivoco, all’uso improprio, alle azioni distorte della lingua e delle azioni.
Capita anche che le parole non afferrino più la realtà, che esauriscano il loro compito, che si logorino, questo succede quando la comunicazione attraverso la scrittura esula dalle leggi e dai valori umani. E allora un buon libro può porre rimedio. Il libro Di tanto tempo è fatto di parole, lavora su di esse: è nato da occasioni di tempo e nella profondità del tempo reimpianta le parole nel presente per dar luogo a nuove germinazioni.
Infine, un consiglio.
Vincenti ci ha parlato abbondantemente e con intelligenza del tempo e di tutto ciò che a esso è consequenziale. Non dimentichiamoci a questo punto di provare almeno ogni tanto di liberarci dall’ossessione di misurare il tempo in maniera precisa, convenzionale, domandandoci qual è il tempo giusto per un processo o per andare in pensione. Concediamoci pure un po’ più di libertà immaginando un orologio con le dodici ore del quadrante che ruotano in senso antiorario e che non sviluppano nessun movimento. E certamente un sogno, fuori da ogni logica di tempo, saprà interpretare l’idea del tempo.
Elio Ria
Dalla presentazione tenuta il 18 novembre 2011 presso l’Università Popolare “Aldo Vallone” di Galatina
in “www.unigalatina.it”