di Armando Polito
La panàra è una specie di cesta alta e rotonda e la voce è da pane con aggiunta di suffisso aggettivale indicante pertinenza con effetto finale sostantivato di natura strumentale (contenitore per il pane), come per farnàru (setaccio) da farina, per puddharu (pollaio) da un inusitato puddhu (pollo), per cranàru (granaio) da cranu (grano), etc. etc.
Se il contenuto originario e per eccellenza era il pane, così com’è successo con tanti altri contenitori, la panàra ha finito per accogliere fin da tempi antichi anche altri ospiti, soprattutto i frutti e a Spongano, addirittura, la sansa. In occasione delle festa di S. Vittoria, il 22 dicembre, le panàre vengono riempite di sansa, decorate con fiori e foglie, poi si dà loro fuoco perché brucino lentamente trasportate in processione su carri per le vie del paese. La tradizione ha origini medioevali ma sicuramente ha ereditato l’antica vocazione per il culto del fuoco, elemento nello stesso tempo di purificazione e di propiziazione, che trae alimento dal residuo della lavorazione del frutto che ci connota in Italia e nel mondo: l’oliva. E gli aspetti devozionali e, in un certo senso, utilitaristici s’intrecciano con leggende cristiane popolate anche da draghi, il cui significato allegorico non sempre è facile cogliere. In questo la leggenda di S. Vittoria che scaccia dalla regione in cui era stata esiliata un drago che imperversava bruciando col suo fiato cose e persone sembra essere la versione riassuntiva di quella di San Giorgio e della principessa col drago al guinzaglio.
E come nel mondo antico sull’altare venivano bruciate per essere offerte alla divinità le parti più scadenti (quelle migliori, a cottura avvenuta e prima che bruciassero completamente, approdavano in bocche tutt’altro che divine) degli animali sacrificali per convincere la divinità a favorire la crescita di esemplari ancora migliori, così viene bruciata la sansa e pure il suo contenitore perché il raccolto di olive dell’anno successivo sia felice e il pane non manchi…tanto per realizzare una nuova panara basta qualche canna e qualche inchiùlu.
La mia ironia non vuole essere blasfema ma è solo tesa a far recuperare alle coscienze, alla mia prima di tutto, il valore profondamente sentito che queste feste avevano soprattutto presso i più umili (quelli, per intenderci, ai quali, nel mondo pagano, immagino fosse precluso dare un piccolo morso alla parte nobile dell’animale sacrificato). Nell’era del consumo abnorme ed egoistico e, comunque, dello spreco delle risorse, la crisi può rappresentare paradossalmente (come in passato lo era la guerra; lungi, comunque, da me l’idea che essa possa mai costituire la pulizia del mondo…), se gestita correttamente, la nostra fortuna, il trampolino per il riscatto di una umanità più degna di questo nome. E se alla fine della festa a Spongano (il discorso vale, naturalmente, per tutte le feste in ogni angolo della Terra) verranno distribuiti solo lupini, tarallucci e vino, S. Vittoria sarà senz’altro più contenta e i partecipanti ne avranno senza dubbio guadagnato in salute…, mentre una volta tanto il contenuto (devozione religiosa) avrà prevalso sul contenitore (la festa nei suoi connotati esteriori, compresi anche quelli goderecci e culinari…).
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