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“Piccoli seminaristi crescono”

di Alfredo Romano

Recensione di Luigi Cimarra

È disponibile da qualche settimana in libreria l’ultima fatica letteraria di Alfredo Romano “Piccoli seminaristi crescono”, il cui titolo ricalca quello di un noto romanzo della scrittrice americana Louisa Mary Alcott (1832-1888) “Piccole donne crescono”. Io, che ho fatto un percorso parallelo al suo, quando ho avuto il libro tra le mani, dopo aver scorso le prime pagine, ne avrei scelto uno diverso, cioè “Lultimo dei seminaristi”, che si rifà al celebre film “L’ultimo dei Mohicani”, perché mi sembra più consono a definire la crisi che, a partire dagli anni ’70 o giù di lì, portò la gerarchia ecclesiastica a rinnovare i metodi educativi fino ad allora adottati nella formazione dei futuri sacerdoti sia nei seminari sia negli istituti religiosi. Ne ho fatto cenno all’autore, che mi ha confidato di aver pensato anche lui in prima battuta allo stesso titolo. Si tratta naturalmente di un libro autobiografico, come gli amici di Alfredo intuiscono immediatamente dalla foto di copertina, dove il nostro è ben riconoscibile, nonostante la “tenera età”, in basso a destra, in clergyman, con una espressione serena e vivace.

Tuttavia la narrazione è limitata al breve periodo della prima adolescenza, nel quale si rievoca la “chiamata”, cioè la vocazione (“multi sunt vocati, pauci vero electi”), i sentimenti che lo spinsero alla vita seminariale, la progressiva presa di coscienza, la crisi irreversibile che si concretizzò con l’uscita. Ritengo che il libro sia una testimonianza preziosa, un documento di valore storico, perché rivela un aspetto poco conosciuto della formazione dei futuri sacerdoti. Tutto era regolato da una rigida disciplina sotto la vigile sorveglianza dei superiori (una ben congegnata gerarchia interna che, a partire dal basso, prevedeva la presenza di figure come viceprefetto, prefetto, vicerettore, rettore), secondo una prassi consolidata da secoli. Il bambino era considerato un soggetto ricettivo e passivo, la cui mente e il cui spirito dovevano esser plasmati secondo una matrice o stampo, che inculcava principi assoluti e modelli comportamentali: i seminaristi erano preti “in miniatura”: venivano assuefatti fin da piccoli alle funzioni del clero, ai riti liturgici, al moralismo formale, con una scarsa attenzione alla pastorale, all’apostolato, al sociale: si formava il prete, non il sacerdote, il pastore, che conosce l’odore delle sue pecore, che le guida con santità e saggezza. E proprio in quegli anni siffatto metodo formativo andò via via sgretolandosi sotto la spinta del rinnovamento socio-culturale, che investì la società italiana; crollò quel sistema di impostazioni ed imposizioni indiscusse, indiscutibili, immutabili come se fossero state fissate ab aeterno:

Per ogni azione della giornata, per ogni pensiero, oserei dire, c’era una regola. Avevamo il privilegio della ‘vocazione’, eravamo stati chiamati per evangelizzare, eravamo dei prediletti tra tanti. Non perché avessimo particolari attitudini, semplicemente i piani del Signore erano imperscrutabili. Privilegiati sì, ma la chiamata comportava di essere messo alla prova, sicché tutto bisognava sopportare, fosse anche una punizione o un ingiusto rimprovero inflitti da un superiore: era la prova della tua resistenza, di essere stato degno della ‘chiamata’.

La prova inoppugnabile, impietosa, del fallimento di tale metodo si ricava dai risultati (non) conseguiti in rapporto alle risorse e alle energie messe in campo: su una classe di 21 seminaristi soltanto uno arrivò al sacerdozio, vale a dire una percentuale bassissima, appena il 4,7% del totale. Risulta evidente che il modello non reggeva all’urto delle nuova realtà che irrompeva, alle esigenze della mutata situazione; si imponevano intelligenti aperture alle istanze e alle problematiche di un mondo, che stava cambiando rapidamente e radicalmente.

Ma mi preme anche dire che “Piccoli seminaristi crescono” è  un libro coraggioso, che parla schiettamente, senza schermi o filtri, senza risentimenti od astio, di un’esperienza che normalmente viene relegata nelle pieghe nascoste della memoria o viene addirittura erasa dal tabulato della mente. Parlare di sé, della vita di seminario, è cosa, se non unica, almeno rara. Romano ripercorre con atteggiamento scevro da giudizi drastici e senza recriminazioni, una tappa fondamentale della sua vita, il suo itinerario di fede e di vocazione. Con uno stile pacato e scorrevole, in una sapiente organizzazione in brevi capitoli, offre uno spaccato della vita del seminario, presenta una ricostruzione dettagliata e minuta delle vicende personali, focalizzando le singole situazioni e i singoli episodi con ricordi nitidi, senza offuscamenti o censure preventive. Soprattutto non inveisce con la foga e la veemenza verbale dei “mangiapreti”. Anche nella genesi della sua crisi non cerca alibi. Accenna ad una serie di concause: le tempeste ormonali che nella fase di crescita sconvolgono il corpo dell’adolescente che diviene uomo, le lacerazioni dell’anima, la ripulsa dell’autoritarismo e la ricerca di una autonomia di giudizio, infine il forte anelito alla libertà (più volte egli parla di “costrizione”, quasi di prigionia). C’è da dire che Romano, una volta presa la sua decisione, non ritornò più sui suoi passi, non lo fece desistere neppure l’incontro con figure dotate di intensa umanità e di mentalità aperta, come don Silvano Fràncola e, soprattutto, come mons. Roberto Massimiliani, vescovo di Civita Castellana.

Credo che le pagine più toccanti del libro siano quelle conclusive, il dialogo in dialetto nativo tra il figlio e la madre Lucia, che aveva, con sensibilità tutta femminile, intuito il disagio del figlio, nonché le ultime parole di commiato, che sempre la signora Lucia pronuncia sul letto di morte, dettate da un infinito amore materno: Fiju miu, vòju tte ticu ca su cuntenta ca nu’ tt’hai fattu prete, ca osci li preti su’ ssuli e ‘bbandunati e mmancu carculati! (Figlio mio, son contenta che non ti sei fatto prete, ché oggi vedo i preti soli e abbandonati e neanche calcolati).

Notevole la mole del corredo documentale e fotografico, che l’autore ha conservato e che gli ha consentito di esemplificare momenti della vita quotidiana, senza lasciare spazio all’immaginazione. Questo significa che egli, diversamente da quanto è avvenuto in altri casi, ha rifiutato una rimozione drastica del suo vissuto: non ha fatto, per una sorta di autodifesa, tabula rasa del suo passato.

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