di Alfredo Romano
Raccontare storie. Anche “Piccoli seminaristi crescono”, il mio ultimo libro, racconta una storia, la storia di un ragazzo e di altri suoi coetanei che si chiudono, per così dire, per cinque anni in un seminario al sol fine di formarsi per diventare un giorno dei sacerdoti votati alla salvezza del mondo.
Ma perché c’è questo bisogno di raccontare storie? Tutti raccontano storie, le storie finiscono nei discorsi, finiscono nei libri. Fin da piccoli tutti abbiamo avuto bisogno di storie parlate, di storie scritte. Come si può spiegare questo bisogno di raccontare e ascoltare storie? Le leggi fisiche non lo possono spiegare, perché le leggi fisiche spiegano il mondo per quello che è, ma non possono spiegare le esperienze o gli eventi che avvengono nelle vite individuali di ognuno di noi. Solo la letteratura e le arti in realtà lo possono spiegare.
Ma raccontare storie fa parte di un istinto primordiale, giacché l’uomo, a differenza degli altri animali, vede la propria vita in termini narrativi: c’è un passato, c’è un presente e c’è un futuro da raccontare. Grazie a ciò noi siamo in grado di immaginare scenari e situazioni della nostra vita che ci aiutano poi a prendere delle decisioni, a scegliere quale strada intraprendere al sol fine di garantire la nostra vita. L’immaginazione, in certo qual modo, ce la può salvare. Prendiamo l’uomo primitivo, per esempio, che riusciva a immaginarsi i pensieri che frullavano nella testa del suo nemico, di sicuro ciò costituiva per lui uno strumento di sopravvivenza perché in tal modo poteva elaborare un piano di difesa. Immaginare storie perciò, raccontarle, sì, può salvare la vita anche nel senso che le storie nobilitano il nostro vivere quotidiano a volte così banale.
Quando Marcello Gaballo, direttore del blog Spigolature Salentine, mi propose qualche anno fa di scrivere sulla vita e sulla formazione dei seminaristi di Nardò nei primi anni ’60 del secolo scorso, immaginai che Marcello volesse propormi di scrivere un saggio. Ma io non so scrivere saggi, o almeno non ci ho mai provato: io so raccontare solo storie. Sono cresciuto in un mondo in cui la vita era fatta di storie. E già, perché solo le storie potevano riscattare la precarietà della vita di quei tempi, i tempi in cui, recandomi a scuola ogni mattina, mia madre provvedeva a sistemarmi nella cartella di cartone una fetta di pane condito con vino e zucchero o con olio e pomodoro. Ed era un lusso, giacché alcuni compagni arrivavano a scuola anche digiuni. E quanti bambini ho visto morire d’inedia, di tifo, di meningite, di tisi e febbri varie.
Raccontare storie era come riscattare, dare un senso, farsi la ragione di una vita che doveva misurarsi ogni giorno con la fatica, con gli stenti, con la fame. E noi bambini assistevamo alla morte con quella normalità con cui si assisteva alle azioni quotidiane. E dovevamo essere presenti all’agonia dei nonni, presenti alle veglie, presenti alle grida e allo strazio dei familiari, perfino i morti dovevamo baciare. Non eravamo risparmiati per nulla dalle piccole e grandi tragedie che accadevano in paese, anche noi dovevamo farci carico del dolore collettivo, farci carico di quel mistero che si chiama morte, che ci attraeva per certi versi perché portava scompiglio nel paese e ci faceva restare a bocca aperta.
Eppure, accanto a tutto ciò, c’era un contraltare, giacché, come spesso avviene, non tutti i mali vengono per nuocere. Nel contesto di cui parlo, un contesto non privo di fatti e di episodi a volte tragici, a volte curiosi, ecco che nascevano gli affabulatori, coloro che con gesti e parole riuscivano a rappresentare la vita e i personaggi del paese e tramandare anche le storie popolari che si raccontavano da secoli: storie tragiche e storie per ridere. Accadeva di sera, riuniti d’inverno intorno a un braciere o a un caminetto; d’estate, fuori casa, in un crocicchio al fresco della sera. E si raccontava anche nelle fasi della lavorazione del tabacco, all’alba, col volto sonnacchioso mentre si raccoglieva e quando si stava seduti per ore a infilzare il tabacco con quel lungo ago, detto cuceddha, sempre pronto a pungerti i polpastrelli.
Quand’ero ragazzino, non c’erano libri né in casa, né in paese. Ma le persone che raccontavano ogni giorno, a cominciare dai genitori e dai nonni, non ci facevano rimpiangere la mancanza di libri. Il primo libro è stato quello di lettura in prima elementare. e qui scoprii che anche un libro poteva raccontare storie. La nostra maestra, Ada Distante, ogni giorno, nell’ultima ora, ci leggeva un brano di Cuore, Pinocchio, Le mie prigioni (per dirne alcuni), anche alcune pagine di quella fantastica enciclopedia per ragazzi, così ricca di immagini a colori, che era Conoscere. La maestra, alla bisogna, si portava da casa un volume per trattare l’argomento del giorno. Per noi scolari L’Enciclopedia Conoscere rappresentava il nostro immaginario, il sogno proibito. Questo s’accresceva perché ci era vietato toccare quell’enciclopedia, la maestra non voleva che la sciupassimo. Io avrei voluto assaporarla nel tatto, nell’odore, entrare nelle immagini colorate, esplorarla, come mettermi in viaggio per mondi sconosciuti. Anni dopo, un giorno che andai a Lecce a trovare la mia maestra, la prima cosa che le chiesi fu quella di farmi “toccare” l’Enciclopedia Conoscere. Mi guardò con aria interrogativa: “Sono anni che sogno di sfogliare la tua enciclopedia” ammisi. Rimase spiazzata, la sfiorava come un senso di colpa. Si avvicinò all’anta di uno scaffale vetrato, l’aprì: l’enciclopedia era lì, intatta, come nuova, e vi affondai il naso, la bocca, gli occhi, la testa, il cuore, la mente.
Ecco, ho finito per raccontarvi una storia nelle storie e così… allungo la vita anche a tutti voi, perché è proprio bello svegliarsi alla vita di ogni giorno aprendo la finestra per assaporare la ventata d’aria fresca dell’alba dalle dita di rose, come la chiama Omero. Gli uccelli lo sanno da un pezzo, ché, con i loro cinguettii, saltando di ramo in ramo, concertano i suoni e i colori dell’alba prima che un raggio di sole “spazzi via le tante ombre della nostra vita”, ci ricorda frate Francesco d’Assisi.
Quanta verità nelle tue semplici frasi di scrittore, Alfredo. Il pensare, l’osservare, il raccontare, è vero, per molti è un istinto naturale, un bisogno di sopravvivenza personale e missionario. Non tutti sanno però incantare come te, non tutti sanno trasformare una merenda fatta di pane e pomodoro in un’elegia di odori, d’infanzia, di ricordi o voglia di semplicità. Passi al lettore vite di prima mano, mai sgualcite pur essendo sofferte, nuove se pur vissute, donate eppure amate.