di Armando Polito
Oggi per esprimere una valutazione negativa si ricorre a ben altre metafore, tra le quali spicca quella che si riferisce all’organo genitale maschile. Al di là di ogni riflessione sul maschilismo linguistico (nonostante le conquiste del femminismo, continua, se è vero come è vero, direbbe Antonio Di Pietro, che da tempo pure le donne scocciate dicono che palle!) e sul sesso considerato (non dico per colpa di chi o di quale istituzione…) a lungo come peccato (anche se praticato all’interno del matrimonio ma senza finalità procreative), resta per me il paradosso (frutto della colpa appena accennata) dell’assurgere a simbolo di nullità, o quasi, dell’organo maschile che, in collaborazione con l’altro femminile, ha consentito a me di scrivere queste scemenze (appunto…mi sembra di sentire) e al lettore (e qui l’appunto precedente si riferisce solo a chi non si è limitato ad una rapida scorsa al titolo ma ha continuato imperterrito) di prenderne atto.
In passato i termini di confronto erano ben altri. Per esempio, nel mondo romano (come tutti sanno, ma nessuno come Cetto Laqualunque…) era il pelo1 a dettar legge, non solo in riferimento alle persone comuni, ma anche nei confronti del mondo militare e della stessa divinità2.
Gaio Valerio Catullo (I secolo a. C.), Carmina, XVII, v. 17 : Ludere hanc sinit ut lubet, nec pili facit2uni (Permette a costei di spassarsela a piacimento e non la stima un solo pelo); X, vv. 9-13: Respondi, id quod erat, nihil neque ipsis/nunc praetoribus esse nec cohorti,/ cur quisquam caput unctius referret,/praesertim quibus esset irrumator/praetor, nec faceret pili3 cohortem (Risposi, era la verità, che ciò che era vero, che non c’era nessun guadagno per gli stessi pretori, nè per la coorte, non c’era motivo perché qualcuno riportasse la testa più leccata,
specialmente quelli che avessero un pretore sporcaccione e non stimasse un pelo la coorte).
Petronio Arbitro (I secolo d. C.), Satyricon, 44: Nemo caelum putat, nemo Iovem pili facit3 sed omnes, opertis oculis, bona sua computant (Nessuno prende in considerazione il cielo, neppure uno stima un pelo Giove, ma tutti, ad occhi chiusi, contano le proprie ricchezze).
Prima che la metafora anatomica di cui ho detto all’inizio s’imponesse, la valutazione negativa era compendiata in frasi come non valere un fico secco4, non valere una cicca e pelo aveva, oltre all’uso in senso letterale, quelli ricordati nella nota 1; analogo il destino di filo, metaforicamente usato in un filo di speranza, vita attaccata a un filo, un filo d’olio, un filo di bontà, un filo di bene, etc. etc.
Sotto questo punto di vista il dialetto si mostra più creativo, conferendo oltre al valore di nome comune [filu ti lana, filu ti cuttòne (filo di lana, filo di cotone)] anche quello a prima vista avverbiale di no ll’àggiu istu filu (non l’ho visto per niente).
Ho detto a prima vista avverbiale perché sarebbe strano se un sostantivo fosse contemporaneamente avverbio (è normale, invece, per un aggettivo: per esempio lontano); infatti, come successo per il genitivo di stima, anche qui ci sono elementi sottintesi che hanno dato vita ad una struttura ancora più sintetica, in cui l’elemento temporale si confonde con quello della quantità: no ll’àggiu istu (mancu pi nnu tièmpu cusì piccìccu quantu è nnu) filu [non l’ho visto (neppure per un tempo così esiguo quanto è) un filo)]; in altri contesti è l’idea della quantità quella dominante: no lli ole filu bbene (non gli vuole per niente bene), da no lli ole (mancu pi qquantu ete nnù filu) bene [non gli vuole, (neppure per quanto è) un filo, bene].
E ora siete liberi di dire ‘stu post no nd’è piaciùtu filu…
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1 Sopravvive metaforicamente come sinonimo di quasi niente nelle espressioni: per un pelo (o, non a caso, per un capello) non c’è stato l’impatto e cercare il pelo nell’uovo; registra quasi un ritorno al significato di base in non avere peli sulla lingua. Nel dialetto il significato metaforico è in lu pilu intr’a llu ‘nsartu (il pelo nella sartia) riferito all’acutezza visiva se il verbo reggente è itire (vedere), corrispondente all’italiano il pelo nell’uovo se è circàre (cercare).
2 Oltre al pelo erano abbastanza quotati il fiocco (flocci fàcere=stimare un fiocco), il guscio di noce (nauci fàcere=stimare un guscio di noce), l’asse [(una moneta) assis fàcere=stimare un asse].
3 Pili è definito dalle grammatiche genitivo di stima, ma nessuna di esse cerca di spiegarne l’origine. Consideriamo l’intera espressione pili fàcere (o fàcere pili): se dovessimo tradurla alla lettera sarebbe fare di un pelo, che non ha senso. Anzitutto va detto che il verbo fàcere oltre che fare significa pure stimare, valutare, significato che è rimasto in espressioni del tipo ti facevo più sincero, in cui dall’idea iniziale di fare si è passati a quella di immaginare e, alla fine, valutare. Sostituendo nella traduzione letterale (fare di un pelo) fare con valutare avremo valutare di un pelo, che continua a non aver senso. Tenendo presente che fàcere è un verbo transitivo e che nel caso del complemento oggetto (l’accusativo) va la cosa o la persona valutata (nel primo esempio un eam sottinteso, nel secondo cohortem, nel terzo Iovem), nelle nostre frasi (e in tutte quelle in cui ricorre il cosiddetto genitivo di stima) quel genitivo in realtà dipende da un ablativo strumentale sottinteso (existimatione). Integrando così una qualsiasi delle nostre frasi, per esempio l’ultima, si ha nemo Iovem pili existimatione facit che, tradotto alla lettera, suona: nessuno valuta Giove con la stima di un pelo; e il senso, questa volta, c’è tutto. Un originario, semplice genitivo oggettivo, per quella che io chiamo una comoda menzogna grammaticale, è diventato alla fine un genitivo di stima.
4 No bbalìre mancu nna fica siccàta (non valere neppure quanto un fico secco) probabilmente è di origine relativamente recente, poiché i fichi secchi fino a sessanta anni fa nell’economia contadina avevano un grande valore. Il termine di paragone, comunque, è già obsoleto col costo che i fichi secchi hanno raggiunto. Corsi e ricorsi storici, direbbe Giambattista Vico…