“Il parlare quotidiano è una poesia
dimenticata e come logorata”
M. Heidegger
di Pier Paolo Tarsi
Lecce nu bera nienti a nfacce Utrantu:
fegùrate ca tutte ste sciardine
utandu de cqua nturnu, fencattantu
nu ggìri allu castiedhu peccussine;
tutta quanta sta parte a ddunca moi
l’acqua se stagna e llu ranecchiu rita,
cinquecento anni a rretu quandu foi
era paise a ddu fervìa la vita.
E lla vita fervìa mmienzu stu mare,
a ddu moi nu trabbàculu nu rrìa,
nc’eranu bastimenti a ccentenare
de Francia, de Venezia e de Arbania.
Era de centu turri ncurunatu
Utrantu, figghiu miu, quista è lla storia,
E moi de tanta pompa n’ha restatu
Lu nume sulamente e lla memoria[1]
Con una scena quasi intima che rievoca la funzione più originaria e arcaica del canto poetico, quella della trasmissione orale del proprio passato dal vecchio al giovane, si apre la più bella narrazione storica in versi che si conosca della presa turca di Otranto, il meraviglioso poema Li Martiri d’Otrantu di Giuseppe de Dominicis. Nato nel 1869 a Cavallino, nella provincia leccese, questi era conosciuto soprattutto come Capitan Black, pseudonimo curioso attinto da un romanzo inglese che ricorda immediatamente quanto vasta, nel suo essere proiettata alla più ampia produzione letteraria di tutta (ma proprio tutta!) Europa fosse la cultura di questo poeta, nato nella periferia più estrema del continente e morto a soli 36 anni. Verseggiava per lo più in vernacolo (benché non manchino sue opere in lingua) e nel suo dialetto, nelle immagini e nei modi di dire della propria gente, attingendo simbolicamente dal vivere contadino del Salento fine Ottocento, sapeva elegantemente tradurre e riadattare le Furestere, ossia poesie di giganti stranieri quali Heine, Petoëfi, Beranger, Balaguer, Baudelaire, Hugo, Byron. Grandi autori questi che, attraverso la penna del Capitano, poterono parlare più intimamente ai salentini del tempo, grazie alla mediazione di un verbo a loro più familiare, a dimostrazione del fatto che, quando si è al cospetto di autentica poesia e di animi sublimi, la forza di un messaggio può tendere all’universale e può declinarsi in linguaggi diversi nella pratica di una traduzione intesa nella sua forma più raffinata e rigorosa (anche se ardua, nella misura in cui tradurre resta un compito ermeneuticamente inesauribile) di adattamento ad una forma mentis altra e alla sua cornice di senso, ossia, in questo caso specifico, nella trasposizione al contesto di azioni e significati legati alla terra e al ciclo naturale del vivere del mondo rurale salentino.
Per questi aspetti sopra tratteggiati, vorremmo emergesse l’idea che il De Dominicis non sia da considerare semplicemente un grande quanto dimenticato letterato di questa terra, rivolto con la sua poesia ai temi più alti della vita e della morte, materia di interesse in ogni caso per soli cultori di questa o quella figura poetica, quanto piuttosto un attuale modello di salentinità che non si richiude ciecamente su se stessa, un modello valido per tutti di affermazione costruttiva e autentica della propria identità, di culto della propria lingua e del proprio immaginario in una forma tanto felicemente risolta da esser capace di sostenere una continua apertura all’altro, un incontro profondo con l’estraneo, lu furasteru, con l’apparentemente lontano da noi, in una dialogica tensione alla comunione universale.
Suggello della produzione letteraria ampia e notevolissima del Capitano è da considerare la grandiosa risposta salentina al modello letterario per antonomasia, l’eterno capolavoro dantesco, ossia i Canti de l’autra vita, la Divina Commedia di Terra d’Otranto sconosciuta oggi ai più. Secondo Ennio Bonea – ad un ottimo articolo del quale rimandiamo per un approfondimento sulla figura del Capitano, URL: http://www.bpp.it/apulia/html/archivio/1985/I/art/R85I021.html – pare che fino a pochi anni fa fosse ancora piuttosto comune sentire per le vie leccesi qualche anziano recitare a memoria le quartine dei canti di Pietru Lau, protagonista dell’opera. Testimonianza questa che se da una parte fa comprendere quanto familiare fosse il Capitano ai salentini, dall’altra inquieta al pensiero che, ahinoi, davvero pochissimi sono oggi coloro che ne ricordino anche soltanto il nome. Sulla responsabilità di questa frattura della propria memoria avanziamo qui un’ipotesi che sarà difficilmente contestabile: la memoria di un poeta della levatura del Capitano è stata uccisa dalla scuola italiana, il crimine è stato commesso nel luogo della trasmissione per antonomasia, dove certe rimozioni (forse storicamente giustificabili con l’esigenza di formazione di una coscienza nazionale) sono il frutto di una logica accentratrice e livellatrice, difetto grave a cui da poco più di un decennio si tenta pedagogicamente e didatticamente di rimediare con la proposta di una scuola dell’autonomia, legata per definizione sempre più al contesto di riferimento specifico in cui la scuola è chiamata a esercitare la propria missione formativa, vicina al tessuto culturale più prossimo. Vi è infatti, a nostro avviso, una ferrea e matematica proporzione storicamente ravvisabile tra la crescita del livello di istruzione nel meridione e la perdita di frammenti importanti di memoria del proprio passato di riferimento immediato, fenomeno questo che, pur andando ben al di là, si intreccia in qualche misura con certe rimozioni di memoria legate a varie degenerazioni storiografiche cui oggi si presta tanta attenzione revisionista, nel tentativo di rimediare attraverso la riconsiderazione di questioni storiche complesse come il brigantaggio, il processo di costituzione di uno stato unitario, la formazione di una coscienza nazionale ecc.
Tutto questo ci riporta all’importanza di uno sforzo di conservazione della propria cultura, sforzo che proprio nell’opera del Capitano può trovare un esempio non contraddittorio di radicamento e, si badi molto bene, contemporanea apertura, un attualissimo modello cioè di aperta conservazione delle proprie radici attuato senza trincerarsi nel bieco provincialismo e nel vacuo localismo – alimentati magari dallo scaltro politicante di turno -, mantenendosi sempre in ascolto dell’altro, dell’altrove, dell’orizzonte più ampio e lontano del globale: in sintesi, un modello equilibrato e coerente dell’essere glocal, eredità preziosa per i salentini di questi giorni, per gli italiani dell’incipiente era politica del federalismo, per gli uomini del terzo millennio necessariamente sospesi, per via dei mutamenti planetari, nel vivere in un virtuoso equilibrio sul filo di spinte trasversali tra il locale e il globale.
Quanto fieramente salentino, ma non per questo meno fieramente italiano e pur fiero rappresentante della più ampia cornice della cristianità europea il Capitano si sentisse, possiamo complessivamente desumerlo proprio dalle solenni e ispirate quartine con cui il lungo poema epico dell’olocausto d’Otranto, già menzionato all’inizio di questo scritto, si chiude cinquanta pagine dopo i versi di apertura:
O terra terra de li nanni mei,
ntica città de Martiri e de Santi!
monte de la Minerva a ddunca strei
la mamma n’ha purtati tutti quanti
e ddìssemu de unita la prechera
ca ritta ritta a Diu salia de l’arma;
anime randi, ui ca de cqua mmera
purtàstiu la curuna cu lla parma,
anime fuerti, intru llu sangu uesciu
la forsa de lu Turchiu se stutau
e de la spata soa lu regnu nesciu,
l’Italia noscia libera restau…
Putenza forte de la Santa Fete,
ca nde terasti a ncelu tutti quanti!…
Ferma, piccinnu miu, ferma lu pete
ca ddu catisci è ppurvere de Santi![2]
A noi, abitatori di un mondo globalizzato ben più complesso di quello di fine Ottocento, spetta oggi raccogliere questa saggia eredità di figure come quella del Capitano, declinandola in un messaggio di apertura e accoglienza del linguaggio e delle sfere di senso altrui, senza cedere a esotismi ed esterofilie da una parte, senza arroccarsi in immaturi quanto ridicoli vagheggiamenti identitari dall’altra, in una virtuosa via di mezzo tra il locale e il globale dove unicamente possono darsi l’incontro proficuo e il dialogo costruttivo tra uomini e culture. A noi, che a scuola hanno sempre insegnato che la poesia dialettale era solo quella di un Trilussa, spetta il compito di rintracciare le fila di tanti discorsi recisi, negati, rimossi, connettendoli sapientemente e con apertura al nostro tempo.
Una preghiera rivolgiamo infine al paziente lettore di queste poche pagine affinché non ci fraintenda: quel “romanaccio” di un Trilussa è da sempre a dir poco amato da chi scrive ma, se è vero che siamo salentini, se è vero che abbiamo frequentato la scuola in Terra d’Otranto e se è vero che questa terra ha avuto i propri poeti, allora, per coerenza logica e pedagogica, crediamo che qualcuno avrebbe dovuto parlarci anche, se non in primis, di tutto questo su cui invece si è sempre taciuto. Così è stato – almeno finora e al di là degli attuali riconoscimenti di tali errori, impliciti nell’ideazione progettuale dell’autonomia scolastica -, tuttavia nel contesto delle esigenze storico-sociali oltre che pedagogiche che ci conducono verso la nuova scuola italiana queste mancanze dovranno essere per necessità avvertite come peccati imperdonabili da non ripetere. Fatti in un modo o nell’altro gli italiani dell’Unità (salvo assurde eccezioni ben note a tutti per via dell’ascendente elettorale e della visibilità mediatica di cui queste purtroppo dispongono), bisogna ora fare quelli del XXI secolo.
*Pubblicato su Spicilegìa Sallentina, n° 9, 2012, pp. 39-42.
[1] Tratto da Li Martiri d’Otrantu in Vita ed opere di Giuseppe De Dominicis (Capitano Black), Congedo Editore, Galatina 1976, Vol. II, I, p. 13.
Traduzione nostra: “Lecce non era nulla in confronto a Otranto: / considera che tutti questi campi / girando di qua intorno, fin quando / non giri per così al castello / tutta quanta questa parte dove ora / l’acqua ristagna ed il ranocchio canta / cinquecento anni addietro quando fu / era paese dove ferveva la vita. / E la vita ferveva in mezzo a questo mare, / dove ora non giunge un trabiccolo, / vi erano bastimenti a centinaia, / di Francia, di Venezia e di Albania. / Era da cento torri incoronata / Otranto, figliolo mio, questa è la storia, / ed ora di tanta pompa sono rimaste / il nome solamente e la memoria.”.
[2] Tratto da Li Martiri d’Otrantu in Vita ed opere di Giuseppe De Dominicis (Capitano Black), Congedo Editore, Galatina 1976, Vol. II, L., p. 62.
Traduzione nostra: “O terra, terra degli antenati miei, / antica città di Martiri e di Santi! / Monte della Minerva dove da bambini / la mamma ci ha portati tutti quanti / e dicemmo unita la preghiera / che direttamente saliva a Dio dall’anima, / anime grandi, voi che di questi paraggi / portaste la corona con le palme / anime forti, nel sangue vostro / la forza del turco si spense / e dalla sua spada il nostro regno / l’Italia nostra libera restò. / Potenza forte della Santa Fede, / che portasti in cielo tutti quanti!… / Ferma, fanciullo mio, ferma il piede / ché dove calpesti(?) è polvere di Santi!”.
All’amico Pier Paolo dico solo, senza invidia, che quello che lui ha scritto avrei voluto essere io a farlo. Non è un rimpianto isolato e in occasioni precedenti (anche per altri spigolautori) non l’ho manifestato per evitare che qualcuno pensasse: “Questi se la cantano e suonano da soli!”. Detto questo, cedo alla deformazione ex-professionale e sono particolarmente contento di comunicare all’amico che può tranquillamente sopprimere il punto interrogativo prudentemente e responsabilmente messo a corredo della proposta etimologia di catìsci in nota 2; non sono io a dirlo (anche se, nel mio piccolo, lo condivido in pieno) ma, ancora una volta con buona pace di qualcuno…, il Rohlfs, che a pag. 123 del suo vocabolario così scrive al lemma catisciàre: “calpestare, pestare [latino volgare *catidiàre, dal greco kathìzo=metto sotto]”.
Grazie Armando, ammetto che il tuo giudizio mi fa molto piacere, i malpensanti si scatenino pure, chi se ne frega! :) Grazie anche per le tue precisazioni che sciolgono i miei dubbi su quel termine, in vita mia mai sentito, ho tradotto a senso, e ci ho preso, come si faceva in certi compitacci a scuola :)
[…] giorno fa, proprio dopo aver scritto sul Capitano il brano che potete leggere qui, intenzionato a prendere parte alla presentazione di un libro recentemente pubblicato da Lupo […]
[…] http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/07/29/l%e2%80%99attualissima-eredita-del-dimenticato-… […]
Grazie Pier Paolo. Interessantissimo.
Grazie a te Antonio per l’attenzione ;)