Poesie popolari del Salento/ Ton Dumenicu

Mamma Lucia Giustizieri (Neviano 1919-Collemeto 1994). Foto del 1993.

 

di Alfredo Romano

PREMESSA

Si tratta di una poesia popolare che mia madre Lucia declamava spesso, soprattutto nei matrimoni. Il linguaggio della poesia è piuttosto arcaico e devo dedurre che abbia avuto origine a Neviano dove è nata mia madre. In basso il link dove (con qualche mia commozione) si può ascoltare la voce di mamma che declama la poesia. La registrazione risale ai primi anni Ottanta del secolo scorso.

Ton Dumènicu

Pascalina ndrìzzate šciacquata netta netta
lu sciuppariennu mìntite cuarnitu te sarretta
sta bene ton Dumenicu e šcìa cu llu nutaru
facìmu stocchi stiendi carta penna e calamaru.

Ce beddha sorta ca te truàu lu tata
è beru ca cuarda pècure ma è ccòmutu binchiàtu
tene lu cranu a ttùmani chinu te vettuvàje
crišce ‘nu porcu màsculu quantu na muntagna.

Iu quandu ulìa ton Dumenicu sulu se nde venìa
ca iu chiaru li parlava ca iddhu sulu ulìa.
A propositu sulu sta se nde vene
trasi ca nun c’è ssìrama tte cuntu le mie pene.
Iu quandu vitti sìrata mmiènźu lla chiazza
zziccài ffucire comu nu lampu comu nu tronu
cu begnu bìsciu tie beddha racazza.

Osci è mmatrimoniu e tte tocca nu pecuraru.
Num bòju lu pecuraru ca me fete te rrumatu
voju tie ton Dumenicu ca sî beddhu e ssî ngraziàtu.

A ddhu frattiempu se truàu ttrasire lu Làźaru, lu sire e llu tutore.
Bongiornu ton Dumenico
Bongiornu Pascalina.
A ttutti lu postu ca li spetta
ton Dumenicu te coste mmie sse ssetta.

Pascalina, cce imu te fare?
Scrivi tavule e tristièddhi, saccuni e tre ccušcìni
lu nanti jettu scàpulu cu ssei lanzùli fini
tuvàje cuperte šciucamani
zzìnzuli scrivi na quarantina
fazzuletti trìtici te tela
na naca cu do’ càmpici semmai ffacìmu fili
na beddha càšcia usata
tunque nutaru scrivi casa è reggimentata.
Se po’ ssapìre lu mbròju ci facìti? tisse lu sire
ca a ccinca tati fìjama voju mme la ticìti.

Cittu tata ca iu su’ mmaritata circa tre giurni ca imu fattu la frittata.
Lu sire quandu ntise te cusìne zziccàu la seggia e nne la tiràu ‘n capu.
Tice: Cristiani mi’ iutàtime ca patiscu te cunvursioni
intru la ventre mia me sentu lampi e troni
e cci fìjama patišce te ‘sta mmalatìa ton Dumenicu cu sse la pija.[1]

IL LINK CON LA VOCE DI MIA MADRE CHE DECLAMA LA POESIA: 
http://www.youtube.com/watch?v=u0UX3jIAPOk&list=PL40B973C83199338B&index=9&feature=plpp_video

TRADUZIONE IN ITALIANO

Don Domenico

Pasqualina drìzzati sciacquata linda linda
il busto stretto mettiti guarnito di stecchette
ecco don Domenico arriva col notaio
facciamo torci e spandi carta penna e calamaio.

Che bella sorte ti trovò il padre
è vero che guarda pecore, ma sta comodo e satollo
tiene grano in abbondanza pieno di vettovaglie
un porco maschio alleva, grasso quanto una montagna.

Io quando con don Domenico filavo, lui solo se ne veniva
io chiaro gli parlavo ché solo lui volevo.

A proposito solo sta arrivando:
Entra non c’è mio padre ti racconto le mie pene.
Io quando vidi tuo padre in mezzo alla piazza
presi a correre come un lampo e come un tuono
per venire a vedere te bella ragazza.

Oggi è matrimonio e ti tocca un pecoraro.
Non voglio un pecoraro ché mi puzza di stabbiato
voglio te don Domenico che sei bello e sei aggraziato.

In quel frattempo si trovarono ad entrare in casa
Lazzaro il padre e il tutore.
Buongiorno don Domenico!
Buongiorno Pasqualina!
A tutti il posto che gli spetta don Domenico di fianco a me si metta.
Che abbiamo da fare Pasqualina?
Scrivi tavole e cavalletti, materassi e tre cuscini
in testa al letto libero sei lenzuoli fini
tovaglie coperte asciugamani stracci scrivi una quarantina
fazzoletti tredici di tela, una culla con due ruote semmai facciamo figli
una bella cassa usata dunque notaio scrivi casa è reggimentata.

Si può sapere che imbroglio che mi fate? disse il padre
Ché a chi date mia figlia tocca che me lo dite.
Zitto padre che io son maritata circa tre giorni che abbiamo fatto la frittata.
Quando il padre sentì la tale cosa afferrò la sedia e gliela tirò in testa.
Dice: Cristiani miei aiutatemi ché patisco di convulsioni
nella pancia mia sento lampi e tuoni
e se mia figlia patisce di questa malattia don Domenico che se la pigli!

Poesia tratta da Alfredo Romano, Tradizioni popolari e storie di vita nel Salento , Nardò, Besa, 2005.

__________________________________________

[1] Non c’era matrimonio cui era invitata, dove mia madre non si cimentasse con Ton Dumenicu. Talvolta montava sulla sedia per declamarla. Lo faceva con grandi gesti e una cadenza ritmica alla quale volentieri sacrificava il senso delle parole. Ricordo le risate che suscitava, il batter di mani in mezzo a gente che “aveva pudore” o era “timorata di Dio”. Ma si sa, la trasgressione è sempre stata tollerata nelle maglie della poesia. Alla fine della recita mia madre era rossa in viso, meglio… arrossita. Era religiosissima mia madre, ma come rinunciare alla voglia di stupire? alla gioia del fuoco da comunicare? Dimenticavo, di solito reggeva nella destra un bicchiere di vino che nei gesti piroettava con molta attenzione ma… non sempre. E io? Bene, non è tradizione da dimenticare e adesso mi cimento anch’io. Solo che, al posto del bicchiere, solitamente ho un calice e,  visto che gioco in “terra straniera”, la gente capisce ben poco di quello che dico anche se si diverte all’insolito suono del dialetto. Se qualcuno però mi chiede di tradurre, in genere mi arrabbio: “Mia madre non traduceva!” rispondo. A seconda dei matrimoni varia anche il repertorio. Per Tanto gentile e tanto onesta …[Dante], in genere dico il sonetto prima del taglio della torta e non faccio che guardare la sposa. Non so se lo sposo gradisce, ma si sa che alla poesia tutto è permesso. Poi c’è La lunga notte, libro XXIII dell’Odissea, per… palati più esigenti. Capita però che in qualche matrimonio non ne vogliano sapere: preferiscono il piano elettrico con le basi musicali. Io faccio il muso dapprima, poi m’accendo un toscano. Ma non riesco a rassegnarmi, così, all’atto di andar via, acchiappo la sposa e le appioppo La lunga notte, a quattrocchi (Così in quel d’Amalfi). “Ma è una poesia triste”, mi fa la sposa. “Ma no!”, deploro io, e vado a letto che non dormo. È che da quando non si può più salire sulla sedia perché si sporca, e non si può brandire un bicchiere di vino a rischio d’innaffiare la sposa, c’è sempre meno posto per Ton Dumenicu di mia madre, Tanto gentile e tanto onesta di Dante o La lunga notte di Omero che sia.

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