di Giorgio Cretì
Alla masseria di Capriglia tutto procedeva secondo il susseguirsi delle stagioni e l’attività della gente era legata esclusivamente alle pratiche agricole. Massaro Rosario, oltre che occuparsi delle direttive generali, teneva per sé anche certe incombenze di particolare delicatezza e perizia come, per esempio, la semina e la vendita dei prodotti; Crocefissa badava alla casera e alle faccende di casa e Rocco seguiva tutti i lavori: dall’aratura alla mietitura, dalla mungitura alla tosatura delle pecore, dalla chiamata dei giornalieri al pagamento del vino che essi bevevano nelle botteghe del paese a fine giornata. Gabriella era lì ormai da un anno e s’era integrata nella famiglia: non aveva nessun incarico particolare, a causa del suo impegno continuo con il piccolo Rosario che cresceva bello e sano, ma aiutava qua e là secondo le necessità. Suo padre Peppino ora aveva il lavoro assicurato, ed anche il vino. A volte Gabriella andava nei campi perché erano necessarie anche le sue braccia e allora il bambino restava con Crocefissa, ormai mamma Fissi per Gabriella, che l’adorava e lo teneva in braccio con tanta tenerezza come se tenesse il suo Pasquale ch’era tanto lontano.
Era serena, Crocefissa, e si faceva ogni tanto rileggere le lettere che Pasquale scriveva e specialmente i passi che la riguardavano. Temeva il mare perché lo sapeva infido per i marinai e quando pensava al figlio sopra una nave, le tornava in mente il ricordo di quando, una trentina d’anni prima, c’era stato un naufragio non molto lontano.
Una notte di marzo, un piroscafo inglese che veniva dalle Indie era affondato davanti al canale dell’Acquaviva, alle marine di Marittima. Molta gente allora era accorsa generosamente con le barche, soprattutto da Castro, ed i passeggeri e l’equipaggio erano stati tutti tratti in salvo prima che la nave affondasse completamente; del carico, però, non s’era salvato nulla: al buio era letteralmente scomparso… e non in fondo al mare. Che gente!, pensava.
C’era stata, però, una storia diversa, quella del brigadiere Rizzelli di Gallipoli che, avendo trovato un cofanetto di monete l’aveva subito consegnato al legittimo proprietario, ma gli era toccato solo un encomio. Così erano i carabinieri! I quali, durante le loro perlustrazioni, passavano dalla masseria e v’entravano a salutare chi trovavano ed a scambiare qualche parola: a volte massara Crocefissa regalava loro qualche ricotta o del formaggio da portare a casa. I carabinieri andavano a cavallo o a piedi, ma avevano anche le biciclette. Non erano molto istruiti e la maggior parte di essi sapeva leggere e scrivere quel tanto che serviva per il proprio ufficio; non davano mai opinioni sugli avvenimenti politici.
Il riferimento al naufragio dell’Acquaviva è tratto dal capitolo terzo di “Poppiiti”, uscito nel 1996 ed io l’avevo ricavato da “La corografia fisica e storica della provincia di Terra d’Otranto”, stampato a Lecce da Giacomo Arditi nel 1879.
L’Arditi afferma che tutto il carico della nave fu oggetto di sciacallaggio e salva solo “la gara ospitale ed umanitaria di alcuni signori e delle autorità accorse”. Nel verbale del processo tenutosi a Londra il 12 aprile successivo si dice, però, che non tutto andò perduto: “they ultimately succeeded in saving a portion of the cargo”.
Scorriamo ora il processo verbale dei fatti come redatto a Londra un mese dopo da quella Camera di Commercio.
Il piroscafo affondato all’Acquaviva si chiamava Travancore e apparteneva alla Peninsula and Oriental Steam Navigation Company. Era addetto al trasporto misto di persone e merci. Misurava 1.903 tonnellate di stazza lorda e 1.172 di stazza netta con motori da 350 c.v. Era partito dal porto di Alessandria in Egitto il 5 marzo ed era diretto al porto di Brindisi, con 108 membri di equipaggio, 57 passeggeri e un migliaio di tonnellate di merci, per lo più cotone.
La nave faceva rotta verso il Capo d’Otranto per poi, ivi giunta a circa un miglio dalla costa, segnalare la sua posizione a terra. Da dove avrebbero telegraficamente avvertito Brindisi del suo arrivo perché si approntasse in tempo il treno speciale, pronto per il trabordo dei passeggeri e della posta nello stesso porto. Alle 11 di sera, il Travancore era in vista del faro di Santa Maria di Leuca e tracciata la rotta per proseguiire il capitano se n’era andato sottocoperta. Il tempo era bello, il cielo sereno e il mare completamente piatto, spirava una leggera brezza.
Poi le cose si complicarono in quanto le valutazioni del comandante e del suo vice non coincidevano ed anche per la nebbia calata sulla zona. Il comandante aveva controllato le carte nautiche e tornando sul ponte, verso le tre del mattino, ordinò di cambiare la rotta, ma improvvisamente si trovò la costa molto vicina e la cambiò nuovamente. E fu proprio in quel momento che la nave urtò violentemente contro uno scoglio della “Baia di Castro dentro Punta Mucurone (Maccarone nel testo inglese) a circa 9 miglia dal Capo d’Otranto”. La prua era staccata dalla riva meno di 50 metri e la poppa meno di 100. Erano le 4 del mattino. Furono immediatamente calate in mare le scialuppe e portati a terra i passeggeri e la posta. La nave imbarcava acqua molto in fretta, però, ma il capitano e l’equipaggio rimasero a bordo per tentare di disincagliarla anche se l’acqua entrava sempre più copiosa nelle stive. Alle 7 di sera fu del tutto abbandonata. Ma gli uomini della ciurma vi ritornarono il giorno successivo e riuscirono a salvare una parte delle merci. La nave rimase poi abbandonata al suo destino ma non ci furono perdite di vite umane.
Il 12 aprile pressso Westminister il capitano Robert Scott e Melbourne Denny Blott, vicecomandante, furono processati, ritenuti responsabili del naufragio e condannati alla sospensione per tre mesi della loro patente nautica. Motivo: la nave non era stata governata with proper and seamanlike care, con la necessaria accortezza degli uomini di mare.
L’episodio è rimasto generalmente dimenticato per più di un seccolo, fino a quando nel 2005, il giorno 8 di marzo, l’Amministrazione comunale di Diso, del cui territorio fa parte la frazione di Marittima e quindi dell’Acquavia, non ha deciso di porre una targa con la scritta: “A ricordo del 125° anniversario del naufragio della nave Travancore”.
L’episodio del piroscafo inglese è stato studiato in modo approfondito da Ninì Ciccarese, discendente di una famiglia di Castro, presso la quale alcuni passeggeri della nave avevano trovato ospitalità nel marzo del 1880.
Gli stessi fatti sono stati trattati dal professor Alfredo Quaranta di Marittima con il titolo “La valigia delle Indie” stampato per i tipi di Capone Editore nel 2003. “Valigia delle Indie”, poi, era stato il nome italiano del treno postale e per viaggiatori che da Modane (in Francia) aveva portato a Brindisi, attraverso la penisola italiana, i viaggiatori e corrispondenza da Londra a Bombay (via Canale di Suez) nel periodo dal 1870 al 1914.
E’ una bella storia, Giorgio, trattata e realizzata con la varietà dei toni di un affresco. Il mare cattura lo sguardo e anche il timore. Me ne accorgo ogni volta che mi perdo a contemplarlo da dentro le sue acque e da sopra gli scogli. Amico e nemico, per niente servile e prevedibile.Tutto sta nell’imparare a conoscerlo e non solo con carte nautiche, immersioni e studio di venti e correnti, ma soprattutto col rispetto. Le barche questo lo sanno, perfino quei mostri d’acciaio imponenti e meravigliosi detti ‘navi’. Vederne i relitti in fondo agli abissi mi provoca angoscia. Per fortuna, in questo caso non morì nessuno dell’equipaggio e dei passeggeri del Trovancore, ma penso al loro terrore al momento di affondare, ripenso alla paura pungente di tutti quegli occhi che hanno avuto come ultima immagine questa distesa infinita di acqua solenne e spietata. Naufraghi e naufragati. Sarebbe bello, ogni tanto, raccogliersi in meditazione dinanzi a tutti quei volti stranieri e silenziosi che sono stati inghiottiti dal mare e non sempre per tragica fatalità, ma per quell’intima cattiveria umana che fa più paura di uno tsunàmi.
E’un’azzeccata interpretazione del mare questo commento di Raffaella Verdesca, scrittrice di razza ovunque ella parli e qui tanto materna osservatrice e, in alternanza, tenera amante delle acque salate, da rivelarsi, al mio sentire, come una divinità delle stesse distese e degli abissi marini.
Mi permetto di meglio precisare la parte che mi coinvolge.
I naufraghi del Travancore trovarono subito ospitalità a Castro presso la Villa del mio trisavolo, Francesco d’Ostuni, di Tricase, ed a Marittima ed Spongano. Si occupò dell’ospitalità in casa d’Ostuni il fiduciario ed amico dello “Zio Ciccio”, tal Adolfo Melone da Maglie. Tra gli ospiti in casa d’Ostuni, ci fu l’ artista inglese che schizzò, tra l’altro, la scena del naufragio e dell’arrivo in casa d’Ostuni. I quattro disegni realizzati furono successivamente consegnati alla P. & O. (Armatore di Londra) per la descrizione del naufragio.
Nini Ciccarese
Ora del Travancore restano alcune lamiere sul fondo del mare, a 10 metri di profondità, pezzi di vetro delle bottiglie trasportate ed alcuni oggetti di bronzo che facevano parte della nave ( viti, bulloni, maniglie).