di Gino Schirosi
Finora non era stato mai abbastanza riconosciuto quanto importante fosse stato il ruolo dei Padri Predicatori Domenicani in più di tre secoli e mezzo di presenza a Gallipoli. E quale fosse stato il contributo del loro impegno di predicazione e insegnamento nell’influire positivamente, forse ancor più dei Francescani, nel tessuto civile della nostra comunità, nell’evoluzione culturale della società, nella formazione dei giovani anche fuori dalle fasce elitarie, nella preparazione delle professioni e del clero, nel cammino dottrinario della Chiesa locale e persino nel radicamento istituzionale così come nella stima e nel favore popolare.
La storia dei P.P. Domenicani ebbe inizio nella primavera del 1517, allorché, grazie ai buoni uffici del governo spagnolo presso le autorità locali, raggiunsero Gallipoli invitati a fondare una loro comunità sulle estreme mura di ponente. A reggere l’esigua diocesi gallipolitana (l’isola abitata ed il contado) era il cardinale Francesco Romelino, chiamato a ricongiungersi con l’Eterno Padre proprio l’anno successivo.
Erano trascorsi quattro anni dopo l’ultimo ufficio liturgico in lingua greca celebrato in cattedrale, da quando, chiusa la lunga parentesi bizantina, si avviava anche qui il rito latino, già in uso a Nardò e consolidato dai Normanni con feudatari e vassalli locali.
I Domenicani sostituirono l’ultimo abate di S. Mauro, appartenente ai monaci orientali di rito greco seguaci di S. Basilio, ormai in via d’estinzione nell’occidente cristiano. I frati si avvicendarono nel prendere possesso dell’antico cenobio greco-orientale, il “Magnum Monasterium Sanctae Mariae Servinarum Sancti Basilii”, citato in una bolla di papa Gregorio IX (m. 1241). Era stato distrutto, pare, durante l’assedio rovinoso di Carlo II d’Angiò (1284). Passarono ai frati di S. Domenico tutti i beni, già dei monaci Bizantini del monastero basiliano, presenti a Gallipoli dal sec. VIII dopo le persecuzioni iconoclastiche. Il patrimonio, con l’avallo delle autorità ecclesiastiche, fu trasferito alla diretta amministrazione dei nuovi arrivati.
La scienza teologica con lo studio e la disciplina caratterizzava l’Ordine domenicano che ha avuto il più rilevante influsso nella storia della Chiesa, nella cultura e nella società, se nell’era moderna è stato sempre protagonista nel bene e nel male. Neppure si dimentichi la feroce critica dantesca messa in bocca al grande domenicano S. Tommaso, celebratore di entrambi gli archimandriti fondatori dei due Ordini paralleli, ma inflessibile denigratore dei suoi confratelli allora moralmente deviati dalla regola primitiva (Par. X, v. 96; XI, v. 139: “…u’ ben s’impingua, se non si vaneggia”).
Il primo compito affrontato dai frati nella nostra città fu l’edificazione del convento entro l’isolato urbano poi detto di S. Domenico, che, racchiuso tra via Rosario, via Ferrai e Riviera Nazario Sauro, si affaccia adiacente all’estremità delle mura tra il bastione di S. Domenico e l’ampio piazzale del baluardo (allora di S. Basilio, poi Fortino del Quartararo o degli Angeli o del Ceraro), a pochi metri quindi dal bastione di S. Francesco d’Assisi. Attiguo al convento dovettero erigere una chiesa più consona ai tempi nuovi, non tuttavia nelle attuali dimensioni (del 1696-1700), ma comunque più confacente al costume e al rito dei Domenicani, di cui, senza voler enfatizzare, era ben nota la particolare devozione alla Vergine, destinata a divenire più profonda e sentita appena dopo Lepanto (1571), in pieno regime di Controriforma.
Nel vasto edificio di via Rosario si apriva il portone d’accesso al primo piano per gli studi medi e superiori riservati a studenti interni ed esterni, conservando in pietra lo stemma dell’Ordine (cane con fiaccola tra i simboli della Corona di Spagna). I locali erano disposti, insieme con rettorato, priorato e refettorio, su due lunghi corridoi perpendicolari con volte a botte, affacciati a sud-est sul chiostro a peristilio sorto su uno zoccolo di carparo, il cui scavo servì a reperire il materiale necessario a edificare prima il convento e poi, con tufi di Daliano, l’ampliamento dell’annessa chiesa.
Al chiostro, il cui ingresso principale si apriva dall’arco situato sulla riviera a destra del portale della chiesa, come al piano superiore si accedeva anche da via Ferrai attraverso un cortile fornito di un piccolo giardino. Il chiostro aveva al centro un pozzo ornamentale ed era attiguo alla sacrestia, che al momento della confisca incorporò il lato nord del colonnato di stile dorico. Confinava a sud-est anche con gli studi e il dormitorio del convento, sicché tutti gli ambienti erano comunicanti tra loro dall’interno. L’estremo angolo orientale dell’isola domenicana tra via Ferrai e la riviera era riservato alle celle per i frati, con ingresso dalla stessa riviera. Da rilievi geologici sarebbe pure possibile accertare e verificare l’esistenza di grotte o cripte di età bizantina insieme con camminamenti ipogei collegati col bastione antistante fino alla scogliera.
Dell’ex convento domenicano in Gallipoli ben poco invero si conosce della storia iniziale e successiva, essendo sguarnita di validi documenti ed atti la biblioteca civica al pari dell’archivio vescovile. Solo l’archivio dell’Ordine, più che l’Archivio di Stato di Lecce, ci offre qualche traccia con rari spiragli illuminanti. Non si possiedono notizie neppure sufficienti sull’ampliamento e l’arricchimento del convento. Soltanto è certo che, nel sostituire i monaci Basiliani nell’antico monastero bizantino, toccò ovviamente proprio ai Domenicani il compito di doverlo ripristinare ex-novo con il necessario concorso di fedeli e devoti o grazie al contributo delle famiglie più abbienti.
È tuttavia possibile fissare una data certa: quasi tutti i conventi domenicani del Salento risalgono al sec. XVI. Solo nel 1530 il Capitolo generale di Roma deliberò di riunificare i conventi pugliesi in una Provincia indipendente denominata di S. Tommaso (degno dottore dell’Ordine e della Chiesa universale). E la Provincia pugliese (Sancti Thomae) fu di un’importanza notevole se, fino al momento delle soppressioni, occupò per oltre tre secoli il quinto posto dopo la Sicilia e prima della Calabria.
Nel Salento i Domenicani fondarono propri conventi in venti Comuni. Il convento di Gallipoli ereditò tutti i beni basiliani: le proprietà connesse con le abbazie di S. Mauro e S. Salvatore e quant’altro i monaci orientali avevano accumulato nel territorio o di fondi o di rendite o interessi, dislocati lungo la via basiliana dei monaci che passa appunto dalla masseria “Li Monaci”, di cui tuttora v’è traccia nella toponomastica locale (nella direttrice Gallipoli-Alezio-Taviano). Nel finitimo contado costituiva la tangenziale orientale utile a mettere in comunicazione le abbazie presenti sulle degradanti serre circostanti nel triangolo S. Mauro-S. Pietro de’ Sàmari-S. Maria dell’Alizza.
Da un elenco di platee dell’Archivio di Stato di Lecce si ha notizia che nel 1560 furono concessi ai Domenicani di Gallipoli permessi di vendita in contanti, di benefici e permute di beni esistenti nel territorio urbano ed extraurbano, onde ricavare somme necessarie destinate a consentire lavori già progettati nel convento e in corso d’opera. Dal resoconto dell’Ordine, datato 1613, si rileva inoltre che i Domenicani ebbero cura di alcune abbazie del circondario: di S. Maria dell’Alizza, ove viveva un solo Padre, e di un’altra abbazia, presumibilmente di S. Mauro o di S. Salvatore, entrambe soggette alla loro giurisdizione, mentre nulla si conosce, quanto alla proprietà, di S. Pietro de’ Sàmari e di S. Maria di Civo (agro di Taviano), anch’essa basiliana. A queste non fanno parte chiesette periferiche rurali come la vicina S. Isidoro, mentre posteriore pare essere l’origine di S. Maria delle Grazie (o di Daliano), in contrada Mater Gratiae ad est della città, sulla direttrice per Alezio.
Il convento domenicano di Gallipoli, in tempi in cui non esistevano scuole di nessun ordine e grado, ebbe un ruolo di somma rilevanza, in obbedienza alla prassi domenicana orientata su “cattedra e pulpito”. Doveva essere famoso, specie se poteva disporre del “noviziato professo”, insegnamento di discipline specifiche che, se abilitavano all’avviamento del dottorato, erano esclusive per intraprendere il sacerdozio, arricchire la dottrina e ancor più la predicazione. Nel 1609 la Comunità gallipolitana, che poteva avere il gruppo degli “studentes materiales” (secondo le indicazioni del domenicano M.o Galamini), è annoverata tra quelle che potevano istituire, per tali studenti, il corso di discipline “materiales”. Oltre agli studi definiti peculiari, che conferivano titoli di “lettori” o “dottori”, ed a quelli cosiddetti generali (teologici e spirituali, filosofici e umanistici), ve n’erano degli altri riconosciuti come “studia materialia”, caratterizzati da programmi culturali per studenti anche esterni, impegnati a seguire corsi di studio, non speciali ma normali, comprensivi delle più disparate discipline d’istruzione superiore (scienze teologiche, umanistiche, storiche, filosofiche, scientifiche).
Che i Domenicani possedessero inoltre notevoli risorse lo si può dedurre dalla circostanza che nel 1667 contavano tra i loro beni patrimoniali terre incolte affidate pure in enfiteusi. Né va sottaciuta la notizia certa secondo cui rientrava nella proprietà dei frati l’attiguo suolo con caseggiati e giardino, ove fu edificata la chiesa del SS.mo Crocifisso adiacente alla chiesa domenicana. Il terreno fu dato in vendita alla Confraternita dei bottai che non avevano il proprio oratorio da quando i marosi avevano irrimediabilmente danneggiato l’antica cappella del Crocifisso, sita, insieme con altre anch’esse dirute, sul bastione di S. Francesco d’Assisi. Così i frati si liberavano di alcune affittuarie scomode, motivo di scandalo per essere “donnicciole” di malaffare.
Il convento di Gallipoli fu luogo di studi per illustri e qualificati maestri di eccelse dottrine teologiche e filosofiche. Il Micetti, studioso onesto ed informato sulla storia patria, ebbe giustamente a dire nel suo manoscritto inedito: “Se uomini virtuosi vi sono stati e vi sono in questa Città, tutti sono stati ammaestrati dai Padri Domenicani…”.
Nella nota monografia di Giuseppe Castiglione è traccia pure di una notizia relativa al convento dei Domenicani, ritenuti, alla pari dei Cappuccini e dei Riformati, “religiosi stimabilissimi per pietà e per condotta irreprensibile”. Vi si attesta che quei frati avevano a quel tempo una rendita annuale di 1.500 ducati e che “scossi dal pressante bisogno d’istruzione che ha la città, han chiesto il sovrano beneplacito per istituire un collegio di educazione”. Ma con R. D. 17-2-1861, n. 251 il convento venne soppresso giusto in esecuzione, dopo l’Unità, delle sabaude leggi “Siccardi”.
Partiti i frati, il convento, da tempo in fase di smobilitazione, venne in varia misura occupato, a cominciare dalla caserma di Gendarmeria. È notizia che, prima e dopo quella data, divenne persino luogo di ritrovi politici piuttosto riservati se non addirittura segreti. Nel chiostro, all’epoca dell’ultimo Priore Fra Vincenzo De Zio da Ruvo di Puglia, affettuosamente stimato presso il popolo col titolo di Padre Maestro (una corte gli è dedicata nei pressi di via Rosario), si era costituito il Circolo patriottico cittadino. Vi si riunivano dal 1848 Bonaventura Mazzarella, Emanuele Barba, Francesco Massa, Leopoldo Rossi, Luigi Forcignanò, tutti in contatto con Antonietta De Pace e Giuseppe Libertini (da Napoli) o con Epaminonda Valentini e Sigismondo Castromediano (da Lecce), che sperimentarono le barricate o le prigioni borboniche (e persino la morte).
C’è infine da aggiungere quanto attesta il valtellinese Pietro Maisen nella sua opera storica edita nel 1870. Dal 1863, allorché il convento fu definitivamente sgomberato, l’edificio era già “convertito ad uso delle scuole elementari, Biblioteca comunale, regia Pretura, Comizio Agrario, Asilo di mendicità e Monte dei Pegni”, ma finì per essere adibito anche come ambulatorio comunale con accesso dalle mura. Già nel 1864, infatti, su insistente sollecitazione del partito repubblicano e di Emanuele Barba erano state avviate alcune sezioni di scuola elementare con asilo infantile, funzionanti nei locali dell’ex convento, quelli adibiti sia a studio sia a dormitorio.
Nel 1869, definito il contenzioso col Regio Demanio protrattosi sin dal 1861, la proprietà (quasi metà dell’isolato) fu confiscata e trasferita al Comune. Il braccio orientale antistante il bastione fu utilizzato come sede delle carceri mandamentali e poi, una volta dismesse negli anni ‘60 del secolo scorso, fu occupato da privati per essere poi alienato per future attività turistiche ricettive. Il resto del convento ai primi del secolo scorso fu anche adibito a scuola media con accesso da via Rosario e da via Ferrai, incluso il chiostro utilizzato come palestra ginnica. Attualmente tutti questi locali sono in concessione ad alcune cooperative o associazioni culturali giovanili. Solo la chiesa passò alla Curia Vescovile, per essere amministrata con somma devozione dall’annessa Confraternita del Rosario, che dal1600 ha tuttora in cura, tra l’altro, il culto mariano ereditato proprio dai Padri Domenicani.