Insubordinazione, litigi e botte tra militari nella Gallipoli del 700

L’Ordine: elemento fondamentale del sistema militare

di Antonio Faita

Sulla rivista “Finanzieri e cittadini” del mese di Gennaio 2011  è stato pubblicato, nella sezione “Nuovi ordinamenti”, un articolo tratto dallo studio “IL CITTADINO MILITARE Principi costituzionale e Ordinamento Militare” di Cleto Iafrate e Bruno Forte, dal titolo “L’ORDINE: Elemento fondamentale del sistema militare”.

Dall’articolo emerge che l’attività, svolta dalle Forze Armate e dalle Forze di polizia militarmente organizzate, si realizza attraverso uno strumento i cui requisiti formali sono ridotti all’osso: L’ORDINE MILITARE; che, però, è anche il motore primo della potentissima macchina militare. L’ordine militare può definirsi un atto autoritativo discrezionale, che si configura come atto amministrativo a tutti gli effetti, completo dei suoi elementi essenziali. L’elemento soggettivo è costituito dalla legittimazione dell’emittente e, quello oggettivo, dalla manifestazione della sua volontà, cui consegue lo stato di soggezione del ricevente ed, in caso di violazione, la comminazione di sanzioni disciplinari o penali[1].

L’art. 173 del Codice Penale Militare di Pace punisce “il militare che rifiuta, omette o ritarda di obbedire ad un ordine attinente al servizio o alla disciplina, intimatogli da un superiore”. L’art. 51 del Codice Penale sancisce che “Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine”[2]. Tutto viene lasciato all’alea della valutazione del militare, il quale si trova come in una morsa, le cui ganasce sono raffigurate dall’art. 51 CP e l’art. 173 CPMP e sulla cui forza di serraggio pesa il disposto di un regolamento (atto emanato dal solo potere esecutivo).

Il tutto è inserito in uno scenario in cui anche il decorrere del tempo ha rilevanza penale. Dunque, la mera inosservanza di un ordine, solo perchè provenga da militare più alto in grado, non per ciò costituisce reato. La giurisprudenza militare di merito, più attenta alle esigenze di tutela effettiva del servizio militare, piuttosto che del grado, ha recentemente confermato (marzo 2010) che la disobbedienza di cui all’art. 173 c.p.m.p. è necessariamente attinente ad un atteggiamento di ribellione del reo rispetto ad un ordine che oggettivamente sia funzionale alle esigenze della disciplina e /o del servizio.

Una conferma in tal senso si ebbe anche in tempi passati, in un episodio di due secoli fa, grazie al ritrovamento di due documenti presso l’Archivio di Stato di Lecce.

L’episodio si svolge presso il Regio Castello di Gallipoli, nel 1711.

In quel periodo, e precisamente tra il 1707 e il 1714, il Regno di Napoli fu conteso tra Spagna e Austria. Nell’anno 1711 moriva Giuseppe I Imperatore d’Austria senza lasciare eredi; fu chiamato alla successione il fratello Carlo III, che salì al trono imperiale del Regno di Napoli, col nome di Carlo VI.

Il regio castello era sotto il comando del castellano Don Francesco Duvelles. Ma vediamo l’episodio: Il giorno 8 giugno dell’anno 1711 si costituirono d’avanti al notaio Carlo Megha[3] e, alla presenza dei testimoni il Reverendo Don Diego De Napoli e Giovani Basso, i soldati Giuseppe Rivoles e Giovanni Ortega, in qualità di testimoni oculari, dei fatti accaduti nel regio castello, ai danni della regia sentinella[4] Pietro Martinez.

In effetti i due testimoni dichiararono quanto segue: la mattina dell’1 febbraio del medesimo anno toccava al soldato Carlo Villano accompagnare (come guardia del corpo) il signor castellano Don Francesco Duvelles. Siccome non poteva adempiere al compito in quanto aveva «male de piedi, e non poteva andar servendo detto Signor Castellano», così venne sostituito, su ordine del caporale, dal soldato Bartolomeo Oliver e, nonostante l’ordine, non intese eseguirlo, allontanandosi per conto suo, senza dir niente. Quella mattina risultava al corpo di guardia, come sentinella, al Regio Porto, il soldato Pietro Martinez  il quale veniva costretto dal sergente Pietro Belmonte e dal caporale Giuliano Meloij, ad abbandonare il corpo di guardia per accompagnare il Signor Castellano. Il Martinez, pur non essendo obbligato, eseguì l’ordine del sergente. La sera, si presentarono nuovamente il sergente e il caporale i quali, con forza, obbligavano il Martinez di andare ad accompagnare nuovamente il signor castellano ma il Martinez questa volta si rifiutò, sostenendo in continuazione che non toccava a lui, come neanche non poteva abbandonare il servizio del «Re nostro Signore Carlo III (che Dio lo guardi)».

A tale rifiuto il sergente Belmonte e il caporale Meloij si irritarono contro detto Martinez, infuriandosi e dicendo alla presenza dei sopraccitati testimoni Rivolse e Ortega: «lascia stare che quest’hoggi ne patirà la penitenza et à forza ci ha d’andare».

Le persecuzioni nei confronti del Martinez proseguirono anche dopo pranzo a tal punto che il sergente Belmonte perse completamente la pazienza e, assieme al “creato[5] del Castellano, si scagliò contro il Martinez maltrattandolo con una mazza, ferendolo e, ingiustamente, carcerandolo.

Nel frattempo, soggiunse anche la moglie del soldato Martinez che, correndo in suo aiuto, fu anch’essa ferita. In seguito pervenne un dispaccio da  Sua Eccellenza e in virtù del quale vennero carcerati il sergente Belmonte e il caporale Meloij che, con astio, disse: «lascia stare detto Pietro Martinez, che se lui mi ha cavato un’occhio, io farò di modo di cavarli tutti due l’occhi» e inoltre il sergente Belmonte aggiunse: «o Io, o detto Pietro Martinez ha d’uscire da questo Regio Castello».

Dalle testimonianza acquisite dal notaio Caro Megha se ne aggiunsero altre, nella stessa giornata, da parte dei soldati Carlo Villano, Marco Mognany Suares e dall’artigliere Giuseppe Mauro, richieste per la verità e che, a differenza della prima testimonianza, aggiunsero alcuni particolari[6]. Presenti anch’essi a quanto accadde alla regia sentinella Pietro Martinez, dichiararono che la domenica 1 febbraio furono richiamati dalle grida che pervenivano dal Corpo di Guardia e  accorsi per vedere cosa stesse succedendo, giunti sul posto, trovarono il sergente Belmonte infuriato contro Pietro Martinez che stava di sentinella, con un “fusso”[7] in mano, gridando e forzando detta regia sentinella a tal punto di menarlo, per farlo andare ad accompagnare il sig. Castellano D. Francesco Duvelles.

Il Martinez replicava che non toccava a lui e che non intendeva  nè voleva essere esonerato dal posto di guardia, perché si trovava a servire il «Re nostro Signore». Il sergente continuava a infuriarsi sempre di più e, a questo punto, per calmare gli animi, intervenne il soldato Marco Magnany Suares che, assistendo al tutto, si offrì di andare ad accompagnare il Castellano affinché lasciassero in pace il Martinez.

Il sergente, sempre più ostinato, non accettava tale proposta, insistendo a dire, che per nessuna ragione, toccava andare al Martinez e anche per sollevarlo dal servizio di guardia. Per l’ennesima volta Pietro Martinez fu costretto a ripetere: «non aspetta a me, e chi mi comanda a far questo?» e il Belmonte gli rispose: «io che sono il Sargente». A questo punto, il Martinez posò a terra il “fusso” che aveva in mano e gli rispose: «Io in quest’atto che mi trovo di sentinella sono Carlo III e l’Imperatore vada a chi spetta» e, inoltre, aggiunse: «fincachè la sentinella sono per ubbedire ad ogni superiore».

Davanti a queste affermazioni il Belmonte si irritò ancor di più e, rivolgendosi al caporale Meloji, gli ordinò di chiamare due soldati per sollevarlo dal servizio di guardia e carcerare il detto Martinez. Sopraggiunto il soldato Bartolomeo Oliver, costringeva con forza il Martinez a lasciare il corpo di guardia e quest’ultimo, rifiutandosi, replicava che già al mattino aveva prestato tale servizio pur non essendo obbligato; inoltre, aggiunse, che doveva compiere il suo obbligo di sentinella. Ci provò nuovamente il sergente, cercando di toglierli il “fusso” che aveva in mano, mentre con tutte le sue forze il Martinez difendeva il suo posto di sentinella. Non riuscendovi, il Belmonte  prese una “schioppetta[8] che era sul posto, si tirò in dietro e “ngrillò” (armò alzando il cane[9]) puntandola contro il Martinez. Nello stesso istante giunse la moglie del Martinez, anch’essa con un “fusso” in una mano mentre con l’altra afferrò, dalla bocca della canna la “schioppetta” del sergente. Contemporaneamente sopraggiunse anche Saverio Polito che afferrò la “schioppetta” togliendola dalle mani del Belmonte il quale, in fretta, si rifugiò nel castello.

Il Polito cominciò a percuotere il Martinez, sparandogli alcuni colpi di “schioppetta” e ferendo ad una mano la moglie. A questo punto, il soldato Marco Suares, vista la gravità del pericolo e che la “schioppetta” era ancora carica con due palle, si apprestò, a difesa del Martinez, a disarmare Saverio Polito, dicendogli: «non si tratta così colla sentinella del Re poiché la sentinella si rispetta, come la persona Reale stando nel suo posto».

Il soldato Bartolomeo Oliver, intanto, assieme al caporale riuscì dalla parte di dietro del corpo di guardia, a raggiungere il Martinez e a disarmarlo, togliendogli la spada e il “fusso”, con il quale gli diedero molti colpi e, grazie all’intervento in aiuto di Marco Suares, cessò il soldato Oliver a dare più colpi. Recuperate la spada e il “fusso” da parte del Suares, il Martinez continuò a fare la sentinella.  Ritornato il sergente Belmonte, ordinò al soldato Emanuele Martinez di andare a rintracciare il signor castellano e a  raccontargli il tutto, mentre lui, assieme al soldato Belmonte e al caporale Meloji, armati di “partesciana”[10] e “fussi”, teneva di guardia Pietro Martinez.

Giunto il Signor Castellano, la sentinella Pietro Martinez raccontò l’accaduto e si offrì, pronto ad obbedire soltanto ai suoi ordini. Il castellano immediatamente fece punire il servo Saverio Polito, cacciandolo via dalla sua casa. Di tale episodio i soldati Carlo Villano, Marco Mognany Suares e l’artigliere Giuseppe Mauro fecero deposizione scritta al signor Don Carlo Buttalacqua, dichiarando inoltre, per una maggior chiarezza dei fatti,  che se fosse mancata qualcosa di quanto avevano dichiarato, la colpa sarebbe ricaduta sullo scrivano, poiché ciò che avevano dichiarato corrisponde a verità.

Purtroppo a distanza di mesi tale disposizione la fecero scomparire e “Sua Eccellenza” Don Francesco Duvelles si accertava su quale fosse la verità, poiché altri testimoni che, pur deponendo “animosamente”, non erano credibili in quanto alteravano la stessa.


[1] Cfr., C. IAFRATE e B. FORTE,  “IL CITTADINO MILITARE, Principi costituzionale e Ordinamento Militare”, tratto da “Finanzieri e cittadini” , rivista dell’Associazione Finanzieri Cittadini e solidarietà, – Roma,  Gennaio 2001, p.51;

[2] Cfr, Ibidem, p.52;

[3] ASLecce, Not. Carlo Megha di Gallipoli, (coll. 40/13), Protocollo anno 1711 “In Dei nomine amen”, ff.121r-122v;

[4] Soldato proprio del Re, specialmente alludendo alla sua autorità: potere regio; godere del favore regio;

[5] Creato: [sec. XV; dallo spagnolo criado, servitore]. Persona allevata nella casa in cui presta servizio;

[6] ASLecce, Not. Carlo Megha di Gallipoli, (coll. 40/13), Protocollo anno 1711 “In Dei nomine amen”, ff.122v-125r;

[7] Fusso: bastone, strumento di pena nella fustigazione e nella esecuzione delle pene capitali. (dal latino fustis-is);

[8] Schioppo: Piccolo fucile ad avancarica a canna liscia, destinato un tempo alla caccia minuta. Grazie alle dimensioni ridotte gli schioppetti potevano essere usati anche da donne e ragazzi;

[9] Cane: Componente del meccanismo di scatto delle armi da fuoco.

[10] Partesciana: partigiana, arma in asta da punta e da taglio, di lunghezza tra 2 e 4 m. Varietà dell’alabarda o forse da questa derivata, conosciuta in Francia in età medievale, fu introdotta dagli Svizzeri in Italia dove fu in uso dal sec. XV al sec. XVII.

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